Questa è la storia di come ho scoperto grazie a un libro la vera cucina romagnola durante la quarantena.
“Sol d’òv e d’ fior d’ fareina, amòrti duri;
La spoja cla seia grossa e lerghi un dìd,
Propri a la cuntadeina.”
Bologna, ore 10.33. Giaccio mesto e umile sul divano, cellulare in mano. Tempo ne ho a palate e mi concedo tutto il piacere di stronzeggiare su internet senza che alcuna contingenza mi ostacoli. In qualche modo totalmente fuori dal mio controllo e dalla mia volontà, sono finito a vedere un video su come si costruisce un coltello a cintura. Io neppure pensavo che esistesse una cosa di questo tipo, invece esiste eccome. Che poi. Quali sono gli effettivi utilizzi di un coltello a cintura? Te la slacci a tavola per tagliarti la bistecca (tanto per risolvere due problemi in un colpo solo) o la usi per difesa personale? Col rischio che ti cadano le braghe rendendo il tuo goffo tentativo di difesa uno sketch “degno” di Benny Hill.
Siamo sinceri. L’emergenza Covid ci ha spiazzati e se proviamo (a fatica) a non considerare le drammatiche conseguenze a livello economico e di salute, il cambiamento più consistente riguarda l’organizzazione del nostro tempo. Da spendersi quasi esclusivamente in casa. Così giù di tappetini e manubri comprati in un’altra vita, nella vana e miserabile illusione di arrivare tartarugato alla prova costume. Fuori anche tutti i fumetti che negli anni ho accumulato senza mai leggere, sistemo la cantina e le reti per i gatti. E poi un buon libro. Un classico, anche per tirarmela un pò con una story su Instagram. Così, spulciando nella zona dei libri di cucina ritrovo un libretto arancione evidentemente di una o due ere geologiche fa che pensavo perso nei traslochi fatti negli anni. “Guida alla veritiera cucina Romagnola” è il titolo.
“Sol di uova e di fior di farina, impastate sode; la sfoglia sia spessa e larghe (le tagliatelle) un dito, proprio alla maniera contadina.
Edito nel lontano 1963, il libro non è un vero e proprio ricettario di cucina romagnola. Qualcosa c’è, ma senza dosi ed in molti casi viene specificato chiaramente che si tratta di indicazioni generiche, in quanto ogni “zdora” (casalinga ndr) ci mette la propria esperienza e sapienza. “Abbiamo omesso con ferma convinzione la parola ricetta, che molti usano anche in Gastronomia. Questo termine, ancorché non improprio, ci riporta troppo alla mente farmacie e medicine e tanto basta per farci cadere in malinconici pensieri. Parleremo perciò di composizioni che, come quelle musicali, vanno alla ricerca di armonie e di accordi e sono pertanto frutto della fantasia.”
Dunque di cosa parla questa guida interregionale per autostoppisti del cappelletto, per i nostalgici della pappardella, tipo di pasta che ormai non si fila più neppure il più irriducibile degli osti tradizionalisti? Parla di sfoglie, sfogline, osterie e“Piè”, arrivando a scomodare perfino Giovanni Pascoli:
“Io, la giro, e le attizzo con le molle
Il fuoco sotto, finché stride invasa
Dal color mite e si rigonfia in bolle;
E l’odore di pane empie la casa.”
E così via. Partiamo dai sfarzosi conviti ai tempi dell’antica Roma, dove scopro che era buona norma di gusto consumare solo piccole parti degli animali che venivano serviti. Strabuzzo gli occhi quando leggo che veniva considerato volgare mangiare, per esempio, tutta una pernice. Degli uccelli, in genere, si mangiavano solo le “parti deretane”. Ah, ok. Ma è solo una volta superati i cenni storici che il libro regala uno spaccato tanto romantico quanto vivo della Romagna, a cominciare dalle lasagne al forno:
“In Romagna, quando si dice “lisagn”, si intende parlare anche delle tagliatelle, che il termine tajadell è più bolognese che romagnolo e qui si usa poco. Ma il nome lasagne ci induce subito a pensare al meraviglioso pasticcio, le lasagne verdi al forno, la cui gloria ha varcato ogni confine. Tutti conoscono i singolari pregi di questa opulenta minestra fatta di sfoglia verde […] posta in teglia a strati alterni con ragù, balsamella, fiocchi di burro e parmigiano ed infornata a crogiolare per più di mezz’ora. Servita quindi a fette o spicchi, grondante sugo, i suoi deliziosi profumi ed il suo aspetto invitano alle più rosee meditazioni.”
Se nel leggere i termini “pasticcio”, “crogiolare” e “grondante sugo” non avete avuto un sussulto, beh, avete qualche problema nella vostra scala emozionale. Lo so che vorreste essere stravaccati su una sedia malmessa in vimini, la forchetta che ha raccolto, grattandolo via dal piatto, l’ultimo residuo di ragù. Magari alticci, ridendo di cose trascurabili, quando oramai non ci si ricorda nemmeno più se nel bicchiere c’è della Cagnina o del Sangiovese. D’altro canto, il testo parla chiaro a tal proposito:
“Il vino, tra le bevande fermentate, è il più importante, il più utile, quando il suo è ben regolato; meno nocivo, sotto certi riguardi, perfino quando se ne abusa.”
Ovviamente il libro fa menzione di cappelletti, girarrosti, poesie culinarie e leccornie di ogni tipo. Chiude poi con una serie di riflessioni e consigli gastronomici e di bon ton come “evitare la masticazione spettacolare, ma nemmeno si deve mangiare a bocca sigillata, il che provoca buffi roteanti delle linee facciali”. Viene anche fatto tassativo di vieto di “lisciarsi il crine o leggere il giornale ignorando gli altri commensali”. Anche se il mio preferito rimane di gran lunga il suggerimento sull’utilizzo di un “genuino strutto di porco come insaporitore per arrosti”.
Alla seconda settimana di quarantena, non lo so più se oggi è domenica o mercoledì, poco importa. Continuo a perdere tempo guardando video inutili su come fare la scultura di una foresta da una serie di libri e suppongo che ci sarà anche un momento specifico per gli esercizi in casa, anche se di solito quel momento è domani. Oggi ho fatto una gita fuori porta con la cucina romagnola grazie a un buon libro ed un calice di Albana, che col dolce sta sempre bene.
Gabriele De Santis