La decisione di Trump di ordinare l’assassinio del generale Qassem Sulaimani lo scorso 3 gennaio si è rivelata essere perfettamente in linea con lo stile dell’attuale Presidente americano. Non ha sorpreso neanche il fatto che lo stesso non sia stato in grado di fornire prove dell’imminente attacco che il generale ordiva- a suo dire- contro gli USA. Men che meno lascia stupiti la sua reazione davanti alla scoperta di tale incapacità: il suo pensiero, con il tweet “it doesn’t really matter” (non è così importante) riferito alla concretezza della minaccia, ha trovato la sua legittimazione negli atti orribili commessi da Sulaimani in passato.
La minaccia della storia che si ripete?
Il fatto è che agli Stati Uniti è sembrato di rivivere una storia già vista: il 27 dicembre 2019 le milizie hezbollah attaccano una base irachena uccidendo un contractor americano, suscitando l’immediata risposta degli USA che bombardano alcune basi in Siria e in Iraq, con un bilancio di 25 vittime. Ed è qui che torna la sensazione di déjà vu: l’ambasciata americana viene attaccata da rivoltosi, così, neanche una settimana dopo, il generale Soleimani è la vittima dell’attacco con il drone all’aeroporto di Baghdad.
Da lì la minaccia di una guerra che nessuno vuole e che a nessuno conviene.
L’aereo ucraino e le rivolte
L’uccisione del Generale Sulaimani ha generato ritorsioni in Iran: una base militare americana in Iraq è stata oggetto di un attacco missilistico. Inavvertitamente, vittima del fuoco è stato, però, un aereo della Ukranian International Airlines su cui viaggiavano quasi 200 persone. Le proteste generate in Iran a seguito del tragico incidente, hanno trovato l’appoggio del Presidente americano che ha addirittura condiviso un tweet in farsi – tra l’altro uno dei più apprezzati in lingua persiana nella storia del web – per manifestare il proprio sostegno in favore dei manifestanti. E trovare un punto in cui far leva per spingere l’Iran verso un cambio di regime.
Gli USA e l’apertura all’Iran: presidenti a confronto
Prima di Trump, Obama aveva manifestato una certa apertura e sostegno nei confronti dell’Iran, siglando l’accordo sul nucleare nel 2015. Un accordo che, secondo l’allora Presidente, avrebbe favorito l’economia del Paese, immettendolo su un percorso di riforme moderate verso un cambiamento di regime. Lo stesso accordo che Trump ha definito “folle”: un investimento di miliardi di dollari che, secondo l’attuale Presidente USA, avrebbero fatto montare la testa a Teheran “creando l’inferno in Yemen, Siria, Libano, Afghanistan e Iraq”. Ecco perché si era ritirato dall’accordo appena aveva potuto, nel 2018, voltando così le spalle alla grande idea di convivenza pacifica su cui lavorava il suo predecessore.
Secondo i conservatori il piano di Obama era destinato al fallimento sin dal principio. Nessuno, neanche i democratici, si aspettavano un cambiamento dal giorno alla notte, ma l’idea di lavorare sul rapporto di fiducia tra Iran e USA sembrava prendere sempre più corpo. Oggi, Trump, ha adottato una politica completamente diversa, di “massima pressione” punendo l’Iran con sanzioni sul sistema fiscale e sull’esportazione del petrolio nella convinzione che il Paese Islamico risponda solo se messo sotto pressione severamente.
Una Nazione normale
Un’apertura, quella di Trump, che sa di maniere forti, verso uno scopo che pare puntare sempre verso le ambizioni egemoniche statunitensi. Il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, in un discorso all’Università di Stanford lo scorso lunedì, ha dichiarato ironicamente i propri auspici per il futuro dell’Iran: “Noi vogliamo solo che l’Iran si comporti come una nazione normale. Magari come la Norvegia”. Che gli USA si augurino una nazione normale o una nazione obbediente?