– Ma tu che sei di Bologna, perché ti sei trasferita a Milano?
Oggi sono esattamente tre anni da quando ho lasciato il caldo e rosso abbraccio dei portici per varcare la soglia di una piccola casa di ringhiera dentro la circonvalla della city.
Sono sincera: non mi sarei mai immaginata di poter vivere così a lungo lontano dalle strade della mia infanzia e adolescenza. Ma è arrivato un giorno in cui ho ammesso a me stessa (con non poco dolore) che quell’abbraccio mi stava soffocando. Avevo bisogno di cambiare aria, sentirmi scoperta, trovare un posto meno famigliare per provare nuove strade, sbagliare per imparare. Da sola.
Ed è così che mi sono trasferita a Milano. Gli inizi (ovvero i primi due anni su tre) non sono stati semplici, tanto che quando ho scoperto lo slogan “Milano da bere” ero convinta si riferisse a una maniera di sopravvivere piuttosto che a una ideona di marketing anni 80.
Nella carrellata di ricordi spiacevoli posso inserire:
- l’inaugurazione della nuova casa alla quale le poche persone che avevo conosciuto all’epoca a Milano mi hanno dato tutte buca;
- le buche ricevute e la poca voglia di uscire con me delle persone contattate via social alle quali, spiegando la mia condizione solitaria da nuova arrivata, avevo chiesto di uscire randomly;
- la prima capa non mi ha pagato per il lavoro svolto (va bè dai, questo evergreen capita pressoché a tutti);
- la seconda mi umiliava talmente tanto da non farmi cenare la sera e farmi vomitare il nulla dallo stress il mattino seguente;
- una lunga relazione morbosa e malata (un altro evergreen – mi scuso per la poca fantasia, ma questo lo vediamo al mio prossimo CBL);
- tutte le volte che ho pagato in ritardo affitto e bollette e ritardato a fare la spesa perché il terzo capo mi pagava in ritardo (e alla fine non mi ha proprio pagato).
Ma la cosa che mi devastava più di tutte era il senso di abbandono che provavo nei confronti di Bologna e tutta la mia vita che, come quella del vecchio Alex D, “fin lì entrava tutta dentro un Jolly Invicta”. Quante volte, le prime che tornavo, ho appoggiato la mano contro la superficie ruvida di un portico e sospirato “mi dispiace tanto” a bassa voce alla mia città. Quante volte sono stata presa dal panico pensando di aver fatto un torto ai miei genitori, a mio nonno, ai miei migliori amici e di non poterci essere fisicamente nell’eventuale momento del loro bisogno. Quante volte non ho dormito per il senso di colpa di aver mollato tutto il mio passato e il mio presente per non so quanto futuro a Milano.
E per cosa? Per puro egoismo. Per non riuscire ad entrare nelle aziende in cui volevo assolutamente lavorare. Per fare, invece, un lavoro che non mi piaceva. Per tornare poi a casa e non avere nessuno da chiamare per uscire. Dopo due anni non ero riuscita in niente, non avevo niente, non sentivo niente. Fino a pensare che nessuno si sarebbe accorto della mia assenza nel caso in cui non fossi più tornata, né a Milano né a Bologna. Inutile dire sia stato il momento più brutto, più nero e più sconfortante di tutti. Ma è stata quella sera, guardando il cielo nero dal ballatoio, che ho capito davvero il significato della frase “bisogna perdersi per ritrovarsi”.
Allora sono tornata al punto di partenza, a Bologna. Ho esternato tutto il mio dolore alle persone a cui volevo bene ammettendo finalmente anche a me stessa che potevo avere sbagliato e che dovevo chiedere aiuto. Mi aspettavo un “te l’avevamo detto”, mi è stato risposto “noi siamo con te, sia se vorrai tornare sia se vorrai restare”.
E allora è diventato tutto più facile perché la distanza è solo una questione mentale. E io non mi devo dividere tra quello che è stato (o sarebbe stato) a Bologna e quello che sarebbe successo a Milano perché, al contrario, io mi posso duplicare. Oggi, infatti, ho due home, una grande dove mi posso sedere sul bancone e parlare con mamma mentre cucina e l’altra più piccola che trattiene l’odore del ragù imparato a fare da sola. Ho due piazze, una medievale e l’altra moderna, che mi accolgono quando voglio vivere il centro. Ho due tipi di amici, quelli che mi hanno vista crescere a Bologna e quelli che mi hanno vista maturare a Milano. Ho due piatti tipici, la lasagna grondante besciamella e la gigantesca cotoletta. Posso giocare con due dialetti dicendo “dai vez porta la schiscia” (traduzione: dai amico porta il pranzo da casa).
E se mi guardo indietro connetto tutti i punti e penso che sì, ho provato tanto dolore, ma alla fine se non mi fossi trasferita a Milano non sarei diventata quello che volevo con tutto il cuore – una project manager -, non avrei fondato Borderlain, non avrei conosciuto persone fantastiche, non avrei stretto ulteriormente i rapporti che già avevo e, soprattutto, non avrei incontrato il mio compagno di vita, il mio cagnolone Balto.
Oggi, seppur tra le difficoltà, mi sento felice, appagata e davvero, davvero fortunata. E questo articolo è un grazie per chi c’è stato, per quello che è stato e per quello che sarà, qualunque cosa avverrà.
Bellissima storia … in alcuni punti mi ci rivedo tantissimo … un consiglio da expat è quello di comunque non negarti mai la possibilità di conoscere nuovi orizzonti sia lavorativi che della propria vita privata … sii sempre “affamata” di conoscere posti nuovi ,lingue nuove e culture nuove … anche se a 10000 km di distanza il bene che provo per voi ,amici della mia infanzia , rimarrà sempre tale …. Congratulazioni per la posizione raggiunta … questo è solo l’inizio della tua carriera , so che farai strada ne sono convinto amica mia
Paolone, credevo di averti risposto ma mi sa che mi sono persa il commento nella tastiera! Grazie mille.. ci rivediamo prima o poi per una camminata sulla muraglia 😉