Transizioni e non-luoghi: le stazioni in letteratura
Il termine eterotopia venne coniato per la prima volta da Michael Foucault nel 1963 e, come la definizione Treccani supporta, indica “quei luoghi reali, riscontrabili in ogni cultura di ogni tempo, strutturati come spazi definiti, ma «assolutamente differenti» da tutti gli altri spazi sociali, dove questi ultimi vengono «al contempo rappresentati, contestati, rovesciati». La funzione di questi spazi speciali, vere e proprie «utopie situate» in relazione a tutti gli altri spazi, è quella di compensarli, neutralizzarli o purificarli”.
Il concetto di eterotopia, per farla breve, mette a fuoco dei luoghi non-luoghi, spazi transitori e di “sospensione” nonostante siano fondati sull’inscindibile continuità, comunicazione e interconnessione con altri spazi. In questa categoria di luoghi rientrano sicuramente le stazioni. Luoghi di transito, ponti tra la quotidianità e l’evasione, queste ultime ondeggiano senza sosta tra il reale e l’irreale. Il loro incanto irriducibile risiede proprio in questo aspetto: nelle stazioni il tempo viene sospeso, poiché la reale azione per cui gli utenti vi si sono recati consisterà nell’allontanamento da queste ultime per l’arrivo in altre. Tuttavia, si tratta di luoghi perfettamente reali, spesso ricchi di significato storico, punti di incontro e, negli anni della modernità, la loro adesione alla categoria dei luoghi di consumo ha amplificato questa ineliminabile tensione tra l’antico e il nuovo, tra lo statico e il dinamico, tra il reale e l’immaginato.
La letteratura (soprattutto quella di migrazione, ma non esclusivamente) si è occupata spesso delle stazioni. Per ragioni di vastità delle tipologie di stazioni e di spazio, in questo articolo ci occuperemo nello specifico della trattazione delle stazioni ferroviarie in letteratura.
Milano Centrale, Italo Svevo
Corto viaggio sentimentale, novella incompiuta del 1928 e pubblicata postuma nel 1949, rappresenta probabilmente l’unico tentativo di romanzo ferroviario nell’epoca in questione. La narrazione segue Aghios, tipico inetto sveviano, nel suo viaggio di lavoro da Milano a Trieste. Un facchino lo guiderà attraverso la stazione che si rivela un luogo quasi straniante: affollata, ma anche labirintica nella struttura, strutturata in un modo decisamente particolare. Sarà un facchino ad aiutare Aghios, tanto spaesato da non riuscire neanche a trovare il binario:
Un treno non è una cosa piccola, ma il signor Aghios nella vasta stazione non trovava il suo.
Doveva pur esserci nella stazione, in qualche posto, l’indicazione necessaria per trovarlo, ma il
signor Aghios non la vedeva. Di solito sua moglie lo dirigeva. Il signor Aghios fiutò inutilmente
a destra e a sinistra. Vide un facchino che gli correva incontro. Era il fatto suo […]
Svevo si sofferma poi sulla gente che popola quel luogo di transizione, sugli sguardi persi e comunicanti solitudine – oppure speranzosi – delle persone e sulla disposizione dei bagagli “accatastati”. A rapire Aghios è una donna che siede su un bagaglio con un bimbo in grembo, e mentre si chiede se si tratti di un trasloco, il pensiero viene interrotto dall’arrivo del padre di famiglia. Aghios intuisce il sollievo del nucleo familiare, che può finalmente permettersi un biglietto per partire.
“Sloggiano?” pensò il signor Aghios. Vide poi avvicinarsi un contadino che, mentre correva,
esaminava dei biglietti ferroviari certo allora acquistati. La giovine donna ebbe un respiro vedendolo. Doveva aver sofferto di essere rimasta sola tanto a lungo. Quello non era un viaggio con tutta quella famiglia. Un’emigrazione, una fuga. Poi il signor Aghios non guardò più la gente che
lo circondava […]
Roma Termini, Igiaba Scego
Nata in Italia da genitori somali, Igiaba Scego dedica un intero capitolo alla stazione di Roma Termini nel suo La mia casa è dove sono del 2010. Il trend letterario del Duemila ha visto rinforzarsi il filone del romanzo della migrazione raccontata dagli scrittori di seconda generazione.
Roma Termini è la principale stazione ferroviaria dell’Urbe e la più grande d’Italia. […] Costruita
sul colle Esquilino la stazione lavora a pieno ritmo dal 1864. L’edificio che vediamo oggi (con la
facciata ad andamento orizzontale per cui la stazione è famosa) fu inaugurato solo nel 1950. La
gente alla stazione corre. Si corre per un treno, per un bacio, per riabbracciare un caro appena
arrivato o per fuggire dopo uno scippo.
Dal passaggio precedente si può notare come la breve introduzione topografica sia il preludio ad un vero e proprio “zoom” sulla stazione in questione, e successivamente sulla sensazione di ritmo forsennato che si respira all’interno di quest’ultima. La Scego poi si lascia andare ad una metafora etimologica con il nome della stazione, incentrata sulla speranza degli immigrati riguardo la possibilità che il loro viaggio sia realmente giunto al “termine”.
Ho sempre pensato che Termini significasse “meta finale” o “fine del viaggio”. Mi piaceva, suonava come un messaggio dato a noi viandanti isterici, figli della modernità. Invece ho scoperto recentemente che il toponimo Termini significa tutt’altro. Deriva dalla deformazione della parola
latine ‘thermae’. Nelle vicinanze ci sono infatti le terme di Diocleziano e la stazione deve a loro il
suo nome.
Vi è insomma un contrasto tra l’idea di una stazione “mitizzata” e la raffigurazione di un non-luogo freddo e impersonale, scaturita dal vero significato della denominazione della stazione. Una tensione che perdura anche nel passaggio successivo, nel quale la Scego descrive la Galleria Centrale della stazione:
Il cuore di questa stazione è la Galleria Centrale, un cuore fisico e anche un po’ metafisico […]
Non è un caso infatti che nel film Good Morning Aman il protagonista […] percorra questa galleria con il sottofondo di una musica soul che darebbe la carica anche a un mulo moribondo. […] A Termini anche se tutto sembra difficile, anche se c’è qualcuno che soffre tremendamente
(penso ai senza fissa dimora) si ha l’illusione che un treno ti porterà via da tutti i dolori.
Milano Centrale, Carlo Emilio Gadda
Nel romanzo La meccanica (scritto tra il 1928 e il 1929 e rimasto incompiuto), Gadda descrive alcuni dei punti cruciali della città di Milano. Il contesto vede un attenuamento dell’emigrazione italiana che tra fine Ottocento e inizio Novecento aveva caratterizzato la storia dello Stivale e quella europea. Gadda traccia un ritratto dell’affollatissima stazione meneghina mettendone a nudo con sarcasmo i difetti strutturali:
maledetta, è gretta, meschina, antistatuaria, satura di tutte le imprevidenze che un ingegner specializzato
può accumulare in un progetto d’esecuzione, con banchine larghe un metro e mezzo dove fa bisogno quaranta […]
In seguito, il topos dinamico dell’ “io tra la folla” trova la sua sublimazione nella stazione stracolma:
[…] con gomitate e spigoli nelle costole e villana frequenza di tutti i villanoni del mondo universo, […] quella divenne una tregenda d’inferociti e di disperati, in agguato de’ convogli, ancora durante [sic!] manovra da un binario all’altro, con tutta la pena e l’ingombro de lor pacchi, bottiglie vuote, parallelepipedi in sulle spalle stracche e fagotti sferoidi in procinto di sfasciarsi […]
La descrizione è addirittura futuristica: gli zaini diventano “parallelepipedi”, gli esseri umani assumono tratti animaleschi (“in agguato”), mentre il treno viene al contrario estetizzato come opposizione alle brutture di cui sopra:
[…] direttissimi con novantotto minuti di ritardo, che arrivavano a quattro per volta con un
sorgere improvviso de’ fari dentro l’incendio de’ perduti tramonti, incedevano poi lenti, sibilanti,
esausti; superstite al pulsare della celere corsa fremevano ancora da lato la dinamo stridula e il
compressore del Westinghouse; e quattro per volta scaricavano su d’una sola banchina torme di
bipedi e cumuli di accatastati bauli e tutta una marmaglia ancora da tutti i Gottardi e i Sempioni […]
Tre esempi di epoche diverse, che però convergono in una concezione delle stazioni, e dei luoghi eterotopici in generale, che è applicabile anche alla contemporaneità: è difficile sintetizzare questi (non) luoghi nel presentarli e definirli nella loro compressione spaziale; è del resto la loro stessa transitorietà e la loro natura “assimilatrice” di più epoche, cambiamenti, speranze dell’umanità che li frequenta a collocarli in un limbo quasi magico, che accarezza la dimensione del sogno.
Mattia Passariello
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