E se fosse davvero un ricordo tramutato in un sogno. Se davvero le nostre strade non si fossero incrociate quella sera in cui neanche avevo voglia di andare. Se non si fossero aggiunti altri momenti scolpiti nel tempo e nel sorriso. Se non fosse arrivato il momento dei saluti. E poi quell’ultima telefonata che ha trasformato prima la speranza in rassegnazione poi la normalità in incubo chiuso in scatola. A volte le lancio uno sguardo per rendermi conto che, purtroppo, sogno non è stato.
Io non lo so perché sto scrivendo questa cronaca. In fondo potrei benissimo evitare di raccontare i miei cazzi ai quattro internet e continuare nella vita reale ad evitare la domanda: “perché fai sempre così tante cose?”. Ma se è vero che il fato non esiste e che forse qualcuno si ritroverà in questa cronaca, allora le mie parole non saranno state vane. Poiché se si ama davvero solo nel ricordo è scritto.
Sono passati anni da quel giorno di una vita fa. Quella in cui l’amore incondizionato, la protezione invincibile e il duro lavoro quotidiano di una famiglia (che ringrazierò sempre dal profondo del mio cuore) ti portano a credere che, in quella normalità, certe cose non succederanno mai. Sì, ci possono essere alti e bassi come capita a tutti, ma le “cose da telegiornale” non possono toccarti. Per questo non ho dato peso al telefono che vibrava alle 8 di una domenica mattina in piena estate.
Quel giorno non ho sentito nulla. Non la fame, non il sonno, non la stanchezza. Ero da sola di fronte a una vita incompiuta. In fondo, la lontananza era troppa per sentire subito il dolore: erano passati mesi, non esistevano più legami, l’incidente era capitato dall’altra parte del mondo. C’era però una terribile angoscia che con il passare dei giorni cresceva e che, a un certo punto, come le onde di un mare in cui non riesci a nuotare, mi ha sommerso.
Ci ho messo anni a capire che non aver dato l’ultimo saluto non aveva messo fine alla cosa, almeno da parte mia. Che la paura della morte mi stava invadendo. Perché, nella mia normalità, morire adolescenti non poteva esistere. Che il fatto che tutti sanno che prima o poi dovranno morire, ma nessuno ne parla per tabù mi faceva ammattire. Che un giorno con me sarebbero morti tutti i momenti e il ricordo delle persone a me care. Che non saprò mai cosa avrebbe voluto dirmi, una volta finito il viaggio. Un viaggio da cui, per errore umano, non tornerà più.
È così che, triste incazzata e angosciata, ho cominciato a chiedermi cosa serviva vivere se tanto prima o poi. Cosa serviva fare domande se neanche il dio in cui non credo poteva darmi risposte. Perché la normalità era tutta un’orrenda fregatura per cui non riuscivo a chiedere aiuto a nessuno. Forse ero pazza ad unire coincidenze che conoscevo solo io, ma certo, sicuramente ero pazza. Mi sentivo una sopravvissuta, perché non era capitato a me?
Se oggi non credo più nelle coincidenze è perché, nel buio totale, è arrivato un libro in cui ho trovato le mie paure scritte su carta. Dai, non ci potevo credere. Non avrei più avuto bisogno di spiegarle, nemmeno a me stessa, bastava leggerle. Quindi, notizie delle notizie, non ero la sola a farmi quelle domande. No, non era possibile. Sono arrivata alla fine del libro e l’ho riletto da capo. Cazzo, era proprio vero. Anche Alex D. (e quindi l’autore) tentava di razionalizzare un lutto. Va bene. Allora se davvero non ero l’unica, se davvero deve esserci una fine inevitabile, allora non avrei più accettato di fare le cose per inerzia, sarei uscita dal gruppo anch’io.
Dai, allora andiamo a capo.
È stata una cazzata bere fino quasi al coma etilico per non sentire il dolore. È una cazzata farsi prendere dagli attacchi di panico senza riuscire a reagire. È una cazzata dare potere all’inconscio che ti fa sognare di perdere i tuoi cari. È una super cazzata vivere nell’ansia di ricevere un’altra chiamata perché averla ricevuta una volta non significa doverla ricevere per forza una seconda. Ed è una super mega cazzata sentirsi una sopravvissuta a un gioco in cui tanto, prima o poi, moriremo tutti.
Ok, metto insieme un po’ di coraggio e cerco un’alternativa, capisco che fare cose nuove allevia la ferita. Ok ci provo. Mi chiedono di fare un incontro di muay thai, mi alleno allo sfinimento, vinco per ko. Inizio l’università, scopro un tirocinio, vengo presa. Ok quindi è questo che mi piace, scelgo la magistrale. Contestualmente scopro una web radio, chiedo di entrare, wow sto parlando in diretta. Intanto inizio a lavorare e sfrutto il lowcost per viaggiare un po’, da sola. Per la laurea scelgo l’Indonesia zaino-in-spalla con altri 14 sconosciuti. Bologna mi sta stretta, mi trasferisco a Milano in tre giorni, le strade si dividono, alzo il telefono e fondo Borderlain, da zero a 20 persone in meno di un anno. Mentre vivo la solitudine che solo una metropoli sa donare, vengo a sapere che un cucciolo è stato abbandonato. Dai Balto andiamo a casa, curiamoci insieme. Mi rompo le palle delle porte in faccia a lavoro, mi butto sulla scelta del master durante il lockdown in solitaria. Oggi sono qui a scrivere, per il domani sono un po’ più pronta di ieri.
Non lo so come facciano le altre persone. Ma a volte mi fermo e guardo il cielo, come quando l’ho guardato oggi di una vita fa. Quando passano dieci anni vengo a trovarti, ti dico grazie e che è giusto questo sia l’ultimo saluto, qualche volta ancora prima di coricarmi sto per smettere di respirare, penso sia un addio ma in sogno mi hai detto arrivederci, ok, allora mi tranquillizzo.
E quando mi chiedono come mai faccio tutte queste cose sorrido… “bho, così, perché mi va. Tanto prima o poi moriremo tutti“.