Nelle prime fasi della loro incredibile ascesa, i social network venivano presentati al mondo, e da questo accolti, come strumenti miracolosi per la democrazia. Il prodigio tecnico, si credeva, avrebbe permesso il raggiungimento della democrazia diretta. Negli anni, tuttavia, questa convinzione è andata incrinandosi.
Le criticità nella gestione e le falle nella sicurezza ne hanno messo in dubbio l’efficienza dal punto di vista tecnico. L’esasperazione di considerare come semplici opinioni ogni tipo di falsità e violenze (di fatto favorendole) ha screditato le loro politiche sociali. Ciò nonostante, la loro ingerenza negli affari pubblici sembra all’apice; e, recentemente, ha manifestato tutta la propria pericolosità e inadeguatezza.
All’indomani degli eventi di Capitol Hill, infatti, abbiamo acquisito la certezza che le piattaforme social hanno rivestito un ruolo cruciale nella messa in crisi della democrazia che ha ispirato l’intero modello occidentale. E ad ammetterlo, sono stati gli stessi fondatori di Facebook e Twitter.
I fatti
Facebook ha oscurato il profilo ufficiale di Trump, almeno fino a quando la regolare transizione dei poteri presidenziali non sarà completata con successo. “Crediamo che i rischi di consentire al Presidente di continuare a utilizzare il nostro servizio in questo periodo siano semplicemente troppo grandi” posta, infatti, Mark Zuckerberg.
Parole che fanno registrare una vera e propria inversione di rotta rispetto alla posizione espressa in merito all’incitamento alla violenza contro i manifestanti del Black Lives Matters. Le minacce di regolamentazione mosse allora da Trump, evidentemente, non impauriscono più il buon Mark, ora che la presidenza del Tycoon volge, non senza problemi, al termine.
Twitter, invece, per le stesse ragioni, ha direttamente bannato l’account del Presidente uscente degli Stati Uniti dalla propria piattaforma. Il provvedimento, in questo caso, viene annunciato come permanente.
Il social dei cinguettii, di fatti, aveva già da tempo intrapreso un’opposizione dura ai contenuti mendaci e violenti proposti in continuazione da Trump.
Simili interventi, tuttavia – pur avvertiti come necessari da chiunque abbia a cuore il vivere democratico – hanno creato un caso importantissimo e un precedente di valenza assoluta.
“Proprio come l’11 settembre ha segnato un cambio di paradigma per la sicurezza globale, 20 anni dopo siamo testimoni di un punto di svolta riguardante il ruolo delle piattaforme digitali nella nostra democrazia” afferma Thierry Breton, commissario europeo per il Mercato Interno.
Si è acceso il dibattito: giusto censurare o si limita la libertà d’espressione?
Potere privato
Il cuore della questione, però, sembra prescindere la dicotomica disputa e potrebbe essere posto in termini utilitaristici (esattamente come i CEO di queste compagnie sfruttano la loro influenza pubblica).
E cioè: le democrazie occidentali possono permettersi di affidare la loro sopravvivenza alla discrezionalità di questi imprenditori e ai loro farlocchi codici comportamentali?
“Il fatto che un Ceo possa staccare la spina dell’altoparlante del Presidente degli Stati Uniti senza alcun controllo e bilanciamento è sconcertante. Non è solo una conferma del potere di queste piattaforme, ma mostra anche profonde debolezze nel modo in cui la nostra società è organizzata nello spazio digitale” ha ribadito lo stesso Breton.
In più, questi miliardari fingono di voler risolvere – forti dell’enorme potere concessogli – un problema nato, se non per loro volontà, sicuramente per loro colpa. Volendo ipotizzare l’intenzione delle compagini social di contrastare la disinformazione, infatti, bisognerebbe riconoscerne il sonoro fallimento.
Fallimento che lo stesso Zuckerberg ha, col suo post, implicitamente ammesso. E che la concorrenza ha prontamente sottolineato: la situazione è sfuggita di mano.
L’assedio della disinformazione si è sviluppato, anche e soprattutto, grazie alle piattaforme social.
Avvisaglie
Uno studio della stessa società di Menlo Park, infatti, ha rivelato come i 2/3 delle volte che un utente si unisce a un gruppo estremista è perché l’algoritmo di Facebook glie lo consiglia. Ed è proprio questo il motivo per il quale la disinformazione dilaga sui social: le informazioni mendaci, non verificate, le fake news sembrano godere molto di più che l’informazione autorevole (che poi è la vera informazione) dell’enorme cassa di risonanza offerta dai loro algoritmi.
Questo è possibile semplicemente perché questi colossi – a differenza di tutti gli altri mezzi d’informazione “tradizionali” – non sono soggetti a regolamentazioni di nessun tipo. Tutta la responsabilità viene scaricata sugli utenti che postano contenuti, poco importa se poi è la piattaforma stessa a renderli virali senza nessun controllo qualitativo.
Come se non bastasse il quantitativo di dati (e quindi di informazioni) in loro possesso è di proporzioni e valore inestimabile. Le informazioni vengono create, raccolte, analizzate, e, si teme, vendute in barba alle normative su privacy, libero mercato, leale concorrenza.
E a proposito di dati venduti, si è già potuto constatare il circolo vizioso, il loop, nel quale possono far piombare il dibattito democratico; e allora per davvero si pensò ad elezioni falsate. Ma se in quella occasione il tutto si risolse con delle scuse al Congresso U.S.A. (ironia della sorte), oggi il mondo occidentale sembra essersi reso conto di non potere più ignorare la questione.
Reazioni
Il dibattito è da giorni vivissimo in tutti gli stati occidentali, che sembrano aver preso finalmente coscienza dell’enorme pericolo che corre l’intero patrimonio valoriale democratico ad affidarsi a poche mani il cui scopo è accumulare, in maniera più o meno legittima, denaro e potere.
Steffen Seibert, portavoce della Cancelliera tedesca Angela Merkel, ha comunicato, in conferenza stampa, come la stessa reputi “problematica” la situazione creatasi e lo fa in questi termini: “È possibile interferire con la libertà di espressione, ma secondo i limiti definiti dal legislatore, e non per decisione di un management aziendale”. E ancora, “questo è il motivo per cui il Cancelliere ritiene problematico che gli account del presidente americano sui social network siano stati chiusi in maniera definitiva“.
Non è solo la Merkel, però, a vederla così. Il pensiero di fondo è stato largamente condiviso e adeguatamente argomentato da diversi attori della scena politica internazionale. Il mondo sembra ben deciso a non ignorare oltre la spinosa questione.
In Italia – dove di privati che vogliono controllare la democrazia dovremmo saperne qualcosa – non manca chi persevera nel voler considerare le piattaforme social innocui e comunissimi mezzi di informazione.
Non è dello stesso avviso, però, il filosofo, professore ed ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari, che sostiene: “C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump; che sia l’imprenditore a farlo, che è il padrone di queste reti, è una cosa semplicemente pazzesca. E’ uno dei sintomi più inauditi del crollo delle nostre democrazie“.
Paradossale
Le criticità della situazione sono, più che mai, evidenti.
Innanzitutto da un punto di vista sociale, prima che tecnico. L’esasperazione del principio della libertà d’espressione ha sconfinato i limiti posti dal vivere democratico. Le possibilità offerte dalla tecnica sembrano autorizzarci al non-rispetto della scienza, dell’autorità, della verità e dell’altrui argomentata opinione. Certo, è un problema che pre-esisteva ai nuovi mezzi, ma da essi è stato certamente amplificato e, soprattutto, avvantaggiato.
Il punto cruciale, poi, risiede nell’evidenza che, ora come ora, il dibattito socio-politico delle democrazie occidentali non può prescindere dall’utilizzo dei social network. Appare impensabile che una campagna politica, che miri a vincere un’importante competizione elettorale, possa riuscire senza l’utilizzo delle piattaforme digitali.
L’intero dibattito occidentale, insomma, si trova alle dipendenze di quella che è stata definita “oligarchia digitale“; e il meccanismo-social ha portato alla crisi una delle più grandi democrazie del mondo. Per questo, oggi, da ogni dove si invoca una regolamentazione che appare sempre più urgente.
Ora come ora, c’è da ammetterlo, viviamo il paradosso che il “governo del popolo“, e il suo vitale dibattito, siano appannaggio di pochissimi e nell’arbitrio di interessi tutt’altro che pubblici.
Il che, a ben vedere, è in antitesi con il concetto stesso di democrazia.
A cura di
Enzo Panizio
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