Non basta il coraggio per partecipare a una “grande coalizione”. Servono anche i presupposti strutturali
Partecipare a una grande coalizione come quella che sostiene il governo Draghi è un lavoro duro per cui bisogna avere il fisico. Un conto è l’atto di coraggio iniziale e un altro è gestire la permanenza. E l’esempio più lampante di questa differenza ce lo sta dando il Partito Democratico dove il caos tribale sembra aver preso il sopravvento.
C’è una differenza profonda fra l’atto politico di appoggiare un governo e quello di governare. Nel primo caso si possono adoperare tanti stili di appoggio; nel secondo ci si deve essere con entrambi i piedi e un fisico di acciaio. Quello del Partito Democratico si sta rivelando un fisico abbastanza frammentato in cui gli organi configgono fra loro.
La situazione conflittuale interna al PD non poteva che avere effetti nel momento in cui ha iniziato un’esperienza di governo con forze politiche radicalmente diverse. Con principi politici opposti e con riferimenti addirittura conflittuali.
Non sfugge a nessuno come Partito Democratico e Lega siano due calamite che, per attrarsi, devono cercare costantemente la posizione giusta. In questa operazione la lotta interna non è un’agevolazione, anzi: un grossissimo limite.
Mentre Salvini ha fatto lo sciampo profumato alla Lega, si è messo una cravatta in doppiopetto e ha rivisto la propria strategia di comunicazione trainando il carroccio, nel Partito Democratico Nicola Zingaretti non può fare lo stesso perché non possiede le redini nonostante sia a capo della segreteria.
Non per una questione politica ma per una questione strutturale del partito: avere a che fare con una dialettica interna rende ogni scelta un inferno.
Basti vedere le reazioni all’idea mal posta di Stefano Bonaccini che si è espresso favorevolmente verso la proposta di riapertura dei ristoranti a cena annunciata da Salvini. I moti interni al Partito Democratico si sono subito agitati estraendo le proprie armi dalle fondine. Fuoco di fila che Zingaretti non riesce a zittire se non attraverso l’annuncio della resa dei conti.
Potrebbe essere proprio l’assemblea nazionale del 13 e 14 marzo il momento nel quale mettere mano agli spadini. Il problema però è che, quando una forza politica come il Partito Democratico apre ufficialmente la battaglia, il risultato è tutt’altro che certo. La moltitudine di correnti, sotto correnti, gruppi politici, gruppi di pensiero una volta sbrigliati potrebbero deflagrare in qualunque direzione.
È trascorso sì e no un mese da quell’intervento tombale del Presidente della Repubblica che ha obbligato le forze politiche a collaborare. A due settimane dal varo del governo di unità nazionale sono già iniziati i malumori. Un’ospitata in televisione di un politico zelante ha già portato fuori asse quello che il Presidente Mattarella aveva messo in equilibrio.
Si potrebbe aprire così una nuova fase di incertezza. Con il congresso del Partito Democratico nel momento più complicato per il Paese.
Chi sperava che Mario Draghi, il “superMario”, riuscisse a far raggiungere la pace dei sensi si sbagliava. Dopo qualche giorno di idillio mieloso siamo tornati alla politica nostrana. La vera fortuna di chi lavora con una tastiera sotto le dita.
Federico Feliziani
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