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Cultura

Merchandising d’arte: quando la divulgazione incontra il cattivo gusto

Tempo di lettura: 7 minuti

Una volta un artista famoso disse che “Fare soldi è arte, e essere bravi negli affari è la forma d’arte più affascinante”. Se Andy Warhol – il papà di questa profonda citazione -, oggi potesse passeggiare nello shop di un qualsiasi grande museo, godrebbe di giubilo nel vedere realizzato il suo più grande desiderio: il trionfo della pop culture, l’arte che esce dal sacro tempio del museo e invade ogni spazio vitale, ogni momento del tempo libero, ogni profilo internet e social. Ma non solo: l’arte che diventa oggetto alla portata di tutti, il simbolo distintivo della ricerca dell’alternativo. Foulard, zaini, pantaloni, magliette, tazze da caffè e biancheria intima: nel merchandising d’arte oggi è possibile ritrovare la propria opera preferita riprodotta su ogni oggetto di consumo, per mettere in luce un’opinabile sete di cultura.

Infatti, ci sarebbe da chiedersi se indossare una t-shirt con la stampa dell’autoritratto di Van Gogh possa essere un modo per dimostrare di essere amanti dell’arte. La risposta oggi proviamo a darvela noi e, – sorpresa! – è no. Di certo, però, ciò denota un interesse verso quel tipo di oggetto – più raramente, verso l’artista che vi è rappresentato – e permette di essere perfettamente inseriti nel circuito della “poppizzazione”: per intenderci, quella corrente di marketing che ha completamente derubato artisti come Frida Kahlo della loro autentica artisticità, in favore di una commercializzazione dell’artista e dell’arte come marchio.

De gustibus non disputandum est, tuttavia, com’è giusto che sia. E se siamo liberi di indossare e mostrare ciò che più ci piace, un museo può essere libero di consentire la riproduzione delle opere che custodisce su qualsiasi oggetto o superficie (come il MoMA, che ha recentemente lanciato una collaborazione con Vans). O forse no?

L’arte del merchandising

È inutile negare che il rapporto tra l’arte e l’economia di mercato esiste da sempre, da quando i pittori rinascimentali realizzavano ritratti su commissione del proprio mecenate per essere pagati. Come è inutile negare quanto questa tendenza, pur così antica, si sia fatta sempre più pressante nel corso dello sviluppo della storia dell’arte, soprattutto nel contesto delle avanguardie del Novecento. Ma se per artisti come Fortunato Depero (che disegnò l’attuale bottiglia del Bitter Campari), Andy Warhol, Keith Haring e Jean-Michel Basquiat, il raggiungimento della cultura popolare era il loro obiettivo, nonché il presupposto per una rivoluzione dell’arte che partisse dal basso, lo stesso non può esser detto  per figure come William Turner, Francesco Hayez o Vasilij Kandinskij, la cui arte esula un bel po’ dalla commercializzazione.

Eppure, se siete stati almeno una volta in un museo, non avete potuto non notare la costante del piano terra per metà occupato dal negozio di “souvenir”  – se “ricordi” possono essere considerati il servizio di piatti di Klimt, gli orecchini 18 carati ispirati a Mondrian o l’abito da sera schizzato alla Pollock.

Arte e moda: un connubio (im)perfetto

Succede, infatti, che buona parte del merchandising d’arte finisca principalmente nel dominio della moda. La questione si fa dunque doppiamente complessa, allorché ci si chieda se la moda stessa sia una forma d’arte.

A lungo si è dibattuto su tale argomento, e lo scontro con i puristi dell’eternità dell’opera d’arte continua a declassare anche l’haute couture ad arte applicata. Con un’aggravante: l’abito, per sua natura, ha un utilizzo fugace e transitorio. Ma è pur vero che, sempre grazie ai movimenti artistici di avanguardia, i confini tra arte “alta” e applicata, e tra pittura, scultura, fotografia e design, sono andati sempre più assottigliandosi. I settori creativi hanno iniziato a nutrirsi l’un l’altro della propria innovazione.

Così, tra case di moda continuamente alla ricerca di nuove strategie di branding e un mondo dell’arte che dopo le avanguardie si aggrappa disperatamente a ogni forma di sperimentazione, nascono la borsa di Louis Vuitton con il volto della Gioconda (su idea e realizzazione di un altro artista, Jeff Koons), e le sempre più numerose fondazioni che alla morte dei loro mentori, come Louis Vuitton o Miuccia Prada, donano i loro immensi patrimoni alla ricerca e alla promozione dell’arte contemporanea, rivaleggiando con gli stessi musei. Ma nascono anche le famose collaborazioni, che non possono non sollevare alcune perplessità.

Vans x MoMA

Dal giorno in cui aprì per la prima volta le sue porte al pubblico in quel 5 novembre 1929, il Museum of Modern Art di New York ha sempre avuto un unico e ben preciso obiettivo: democratizzare l’arte moderna e contemporanea, renderla accessibile e comprensibile a tutti. Le mostre più epocali, che hanno segnato l’arte del Novecento, devono tutto al rivoluzionario museo newyorkese.

Tra modifiche strutturali e successo globale della collezione, il museo ha saputo mantenere questo suo ruolo divulgativo. Apparentemente è su queste basi che nascerebbe la collaborazione con il marchio di sneakers e abbigliamento Vans: il 30 settembre 2020 il noto marchio ha ufficialmente rilasciato sul mercato la prima parte di una nuova collezione realizzata in collaborazione con il colosso dell’arte americano.

Il footwear apparel debutta con una serie di sneakers ritraenti La persistenza della memoria di Salvador Dalì, e altre opere iconiche di Monet e Kandinskij. Alla fine di novembre, la casa dovrebbe rilasciare la seconda parte della collezione, dedicata a Pollock, Munch, Popova e Ringgold.

 

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Secondo Robin Sayetta, l’associate director of licensing and partnerships del MoMA (ebbene sì, il museo ha un ufficio appositamente dedicato alle collaborazioni di merchandising), «Il MoMA è entusiasta di rivelare la sua collaborazione con Vans, un marchio che vanta una lunga tradizione a sostegno dell’espressione artistica. Accettiamo un numero limitato di collaborazioni di prodotti e il nostro obiettivo è quello di far conoscere a un pubblico sempre più ampio l’arte moderna. Siamo felici di poter raggiungere gli amanti dell’arte in tutto il mondo attraverso il network globale del marchio».

Se la moda può essere, senza dubbio, una forma di espressione artistica, lo è anche camminare sugli orologi liquefatti di Dalì? Lasciamo che siano gli esperti a definirlo dal punto di vista dello stile, ma facciamo presente che la divulgazione delle suole targate MoMA è disponibile al democratico prezzo di 90 euro.

Pull&Bear x TATE

Se andate matti per l’abbigliamento artsy, anche il fast fashion ha pensato a voi. Si chiama Tate Art Collection  la nuova collezione di Pull&Bear dedicata alle opere più famose di un altro colosso dell’arte contemporanea, il Tate Modern di Londra.

 

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A suon di slogan quali “Because Art is for Everyone“, la catena d’abbigliamento spagnola ha realizzato una capsule edition di felpe, t-shirt e persino giubbotti con le riproduzioni fedeli di opere di Malevic, Mondrian e Kandinskij; ma il vero pezzo forte è costituito da un completo di tuta di William Turner.

Anche in questo caso, la questione di buon gusto è decisamente personale; tuttavia, ci sembra lecito sottolineare che la scelta degli artisti, per un pubblico come quello del fast fashion, non sembra essere tra le più idonee: il tardo romanticismo atmosferico di Turner e lo spirituale dell’arte di Kandinskij poco si addicono all’utilizzo di questi capi.

Alcune domande… e alcune risposte

È giusto che la moda tragga ispirazione dall’arte? Se sì, può farlo da qualsiasi artista, di qualsiasi periodo? Inoltre, il merchandising d’arte ha un proprio ruolo nella funzione divulgativa propria di un museo?

Nel primo caso, la risposta è assolutamente sì, e viceversa. È naturale e indispensabile che i settori creativi si influenzino a vicenda: trarre ispirazione, però, non vuol dire ricopiare banalmente o riportare fedelmente un’opera su un capo d’abbigliamento. Vuol dire, piuttosto, rielaborare, richiamare uno stile ed adeguarlo al proprio, alla propria tecnica e soprattutto alla tipologia di prodotto che si fornisce, e al pubblico/clientela alla quale ci si rivolge. Se Vans e Pull&Bear potrebbero rivelarsi, sotto questo punto di vista, un bel flop, in tante altre occasioni la moda ci ha dimostrato di essere all’altezza del compito di omaggiare grandi artisti e pensatori, senza cadere nella mortificazione della tuta di Turner. È il caso della famosissima collezione di Saint-Laurent ispirata a Mondrian, con un taglio d’abito che ha fatto storia; o delle calzature di Salvatore Ferragamo dedicate ad Andy Warhol: un omaggio al pop che pur non rinuncia all’eleganza del marchio.

Il flop totale nel merchandising d’arte legato alla moda, invece, ce lo dimostra casa Moschino, che evidentemente aveva dimenticato che il costume di Arlecchino esistesse già da tempo, e non c’era bisogno di scomodare Picasso…

Tuttavia, è necessario porre un’estrema attenzione anche alla tipologia di artista che si prende in considerazione. Vocare ad una cultura pop un artista il cui pensiero non vi si associa rischia di rendere il processo di democratizzazione e divulgazione alquanto fuorviante. Che sia anche questa la ragione per cui vengono scelti sempre gli stessi artisti, già conosciutissimi e celeberrimi, invece di approfondire altre figure?

La giornalista Jenny Stevens, con un articolo sul The Guardian nel 2018, ha indotto ad una riflessione molto interessante, con un incipit emblematico: «Se fossimo dei fanatici, potremmo vivere la nostra intera esistenza agghindati dei nostri artisti preferiti. Potremmo svegliarci sfilando la nostra mascherina per occhi notturna di Louise Bourgeois, bere un sorso di caffè dalla nostra tazza firmata Damien Hirst, per  poi controllare le notifiche dal nostro smartphone con la cover di Ai Wei Wei prima di indossare i leggings di Van Gogh».

Fanatici o meno, conoscitori o semplici inseguitori di tendenze, diciamo che indossare quella tuta di Turner è come tatuarsi l’ideogramma giapponese di “patata”, con la convinzione che significhi Panta Rei.

Sara Maietta
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Sara Maietta
Una vita ascrivibile all'ABCD: aspirante curatrice, bookalcoholic, catalizzatore di dissenso e dadaista senza speranze.