«La grande contraddizione di questo Paese: se diventi un’icona, sei un fatto dello Stato, della nazione e di tutti i cittadini; se non diventi un’icona, non esisti. Questo è un grande spunto di riflessione. E racconta tanto dello stato in cui viviamo. “Il teatro ci serve, è bello, ci ha fatti crescere, ci ha fatti evadere”…. Io ho sentito gente dire: “Ah, volete pure il bonus?!”. Al di fuori dell’arte e dell’aspetto artistico – perché quello è soggettivo: non ti posso educare all’arte, dovrebbero farlo lo Stato e la società -, tu hai idea di quante tasse pago? Ma soprattutto, hai idea di quante volte io lavori senza essere pagato? Ad esempio, finché un film non viene realizzato, io non vengo pagato. Fa parte del mio lavoro: nessuno mi paga se non c’è un prodotto finito».
Anche se “irriducibile ottimista” – è così che si definisce – Mauro Lamanna, attore teatrale e cinematografico (tra le sue ultime partecipazioni compaiono anche Skam Italia e Trust), mi spiega a suon di risate amare il suo punto di vista sulla complessa situazione a cui la sua categoria sta cercando di far fronte.
Il DPCM del 3 novembre 2020, oltre ad aver colorato la cartina geopolitica, ha anche istituito la chiusura, senza sé e senza ma, di tutti i musei e i luoghi di cultura. Solo dopo, però, la doccia fredda ricevuta dai teatri, messi al bando già con il decreto del 24 ottobre.
A distanza di poche settimane dell’allineamento di bauli in piazza Duomo – protesta dei lavoratori dello spettacolo, completamente dimenticati nel panorama dei sussidi millantati dal governo – i teatri italiani, con i conti in rosso già da decenni causa politiche di gestione completamente errate (o assenti), sono stati considerati, evidentemente, troppo pericolosi. Nonostante i dati parlassero chiaro: un unico contagiato dalla fine del primo lockdown ad oggi tra le file dello spettacolo dal vivo.
La filiera della cultura italiana sta soffrendo a causa della pandemia, ma non si può dire che prima se la passasse meglio. In Italia, il fattore cultura rappresenta circa lo 0,9 % del valore aggiunto del PIL nazionale, ma lo Stato ne investe poco più dello 0,3%, ripartito tra i vari enti, compreso il terzo settore. Diciamo che il nostro Belpaese è la culla della cultura solo quando fa più comodo: la realtà dei fatti è quella di uno Stato in cui la cultura non viene considerata attività essenziale, e nemmeno lavoro degno di essere riconosciuto come tale. Si tratta, piuttosto, di un hobby: lo confermano il nostro premier, che sembra divertirsi grazie agli artisti, e i dati, secondo cui nel 2019 solo il 40% degli italiani si è recato a guardare uno spettacolo. (E meno male che i teatri dovevano essere luoghi di assembramento…).
Una domanda, allora, è sorta spontanea: che il problema di queste chiusure, apparentemente insensate, sia solo in parte legato alla gestione della pandemia, e che non si tratti, piuttosto, di un problema culturale? Quando siamo arrivati a questa constatazione, Mauro Lamanna mi ha risposto con le parole con cui ho voluto aprire questa intervista.
In una conversazione serrata, l’attore calabrese ha risposto ad alcune domande, rivelando la complessa e scarsa considerazione che la cultura teatrale, più delle altre forme artistiche, vede radicata nella nostra società.
Partiamo da una premessa amara: i teatri, come i cinema, sono stati chiusi perché individuati come luoghi di assembramento. Ma purtroppo, in Italia, forse non lo sono da un bel po’ di anni…
«Guarda, si tratta proprio di punti di riflessione differenti. Partiamo dal presupposto che il governo ha completamente toppato, questa volta, le strategie di comunicazione: non si possono mettere sullo stesso piano tante cose senza spiegare che lo si sta facendo perché non si vuole più gente in giro ad una certa ora. Quello è opinabile, però almeno avrebbero dovuto spiegarlo. Non sono stato in moltissimi teatri dalla fine del lockdown ad oggi, ma non ho mai trovato delle situazioni che non fossero gestite in maniera veramente civile. Quindi se si mettono sullo stesso piano queste cose e non si spiega il perché io mi arrabbio, è ovvio. Tanto più se si sono fatti smontare sedili, si son fatte ripartire intere programmazioni….Si manda tutto nel totale caos ma non si riesce a spiegare la vera motivazione. Poi dopo hanno spiegato. Dunque, questa è la prima cosa che il governo ha assolutamente toppato, che è sintomo di un’altra questione, e cioè di quanta poca considerazione ci sia dell’apparato culturale e dello spettacolo in Italia. Ovvero: io non ti devo spiegare le motivazioni per cui ti chiudo, ti chiudo e basta. E ciò è sintomo di quanto la cultura sia considerata una materia d’élite, come a voler dire “questi pure si lamentano”…»
Come si è mosso il comparto teatrale con la riapertura “estiva”? Puoi illustrarci qualche misura adottata nei teatri in cui hai fatto spettacoli in seguito alla riapertura dopo il primo lockdown?
«Parlare della riapertura estiva dei teatri è come parlare dell’apertura delle sciovie d’estate: cioè, i teatri d’estate chiudono. Li hanno riaperti quest’estate in modo simbolico, per cui la riapertura dei teatri a giugno è stata assolutamente inutile, perché nessuno è andato in scena né a giugno, né a luglio, né ad agosto.»
Quindi il teatro è uno di quei comparti che non ha giovato un minimo nemmeno dalla riapertura…
«Qualcuno ha riaperto, soprattutto quelli grandi. Hanno dovuto fare dei tagli sui cartelloni a fronte di tanti costi nuovi che hanno dovuto affrontare. I pochi teatri che si sono potuti permettere di riaprire una stagione comunque l’hanno riaperta feriti. Quest’ulteriore chiusura è una mazzata. D’altra parte, però, non si può non tenere in considerazione quello che sta succedendo.
Volendo poi essere ottimista, se c’è una cosa che è venuta fuori soprattutto nel nostro settore, che è un settore di individualisti, sono le associazioni di categoria. Perché a un certo punto, se è necessario che si facciano dei sacrifici, è anche giusto che si facciano insieme; e se ci sono state crepe profonde nel nostro settore, sono state proprio quelle dovute alla mancanza di unione tra lavoratori. E questa cosa ha a che fare non solo col teatro o col cinema, ma ha proprio a che fare con la nostra generazione: accettiamo le cose così come sono quasi in modo fatalistico, pensando che non si possono modificare. Invece, per colpa di questo virus almeno stiamo capendo di essere una categoria, che possiamo pretendere delle cose e che dobbiamo avere anche dei doveri.»
Il problema allora è alla base, è una questione di matrice culturale.
«Assolutamente. Sicuramente c’è un problema culturale, anche nel fatto che oggi l’informazione è “anarchica”, nel senso peggiore e non in quello migliore del termine. C’è un bombardamento di informazione e non c’è nessuna vera legge. Uno approfondisce quello che vuole, però il problema è la zona grigia: il problema non sono quelli che cercano di avere una coscienza critica, ma sono gli “astenuti”, quelli che rimangono disinteressati ma che in qualche modo si fanno contagiare tanto dalla notizia quanto dal suo opposto. Bisogna avere paura della zona grigia tanto quanto del Covid.»
I musei sono stati ufficialmente chiusi circa una decina di giorni dopo i teatri. Ciò ha provocato ancora più contestazione, perché i musei sono riconosciuti costituzionalmente come “bene di prima necessità”, mentre i teatri no. Credi la scelta si sia basata su queste considerazioni?
«Penso che non ci sia dietro un pensiero simbolico. Non penso che si siano messi a pensare ai singoli, non ne hanno nemmeno le capacità, i nostri politici. Hanno operato delle scelte, anche da un certo punto di vista adeguate. Però passare dal “tutti chiusi” al controllo zero…»
Il contesto pandemico ha costretto qualsiasi attività a spostarsi sullo schermo: è toccato anche all’attività teatrale? O è un’espressione artistica che riesce a svincolarsene?
«Sono molto combattuto rispetto a questa cosa. Se oggi noi conosciamo De Filippo è perché, nonostante lui odiasse farsi filmare, ha ben pensato di fare dei video spettacoli. Il video teatro come documento è una cosa importante. Il teatro resta però insostituibile: a teatro il video c’è già, fatto bene, e si chiama cinema. Questa è la mia risposta. Poi, se deve sopperire a una mancanza, come nel caso di andare a creare degli spettacoli da mandare in prima serata in tv per rimediare alla chiusura, diciamo che è un male minore e che mi fa piacere, ma è un’altra roba.
Altra questione è chi invece inizia a ripensare gli spazi virtuali per la performance in senso lato. Io in questo momento sto costruendo uno spettacolo interattivo con un regista uruguayano e uno cileno, che è tutto in Virtual Reality, però è pensato per la Virtual Reality, è un contenuto che non può essere realizzato in nessun altro modo se non in questo. Allora ha un senso, perché nasce in questo modo ed è pensato così.»
Come immagini il futuro del teatro nel post-Covid? Le (poche) persone torneranno, oppure no?
«Non credo nella memoria collettiva consapevole delle persone. Credo che come successo ad agosto, quando tutti si ammassavano, appena ti dicono che una cosa si può fare, la gente fa tutto. E questo vale anche per i teatri: non credo che la gente non vada a teatro per paura del Covid. Penso che i teatri siano vuoti per dei problemi culturali ben radicati da anni e anni di cattiva gestione della politica culturale italiana, ben prima del Covid.
Questa situazione sta creando sicuramente dei danni economici; se sta creando dei danni differenti, lo sta facendo a livello simbolico: ad esempio, nel considerare quanto la propria situazione di lavoratore sia legata alla società, e quanto la battaglia per i lavoratori dello spettacolo e per lo spettacolo sia fatta solo dai lavoratori di questo settore. Questo è un punto su cui ci si sofferma poco. Io posso scendere in piazza per la cassiera del supermercato, ma lei per me non scende in piazza, perché a teatro non ci va. E quella è, secondo me, la questione interessante. Ma poiché io sono un irriducibile ottimista, credo che se c’è qualcosa di buono che possiamo tirar fuori da questo Covid, è la possibilità di capire a che punto siamo nella storia. Il teatro, come si sta evolvendo? Da dove viene e dove sta andando? Il teatro ha sempre mutato la sua funzione rispetto alla società, perché questa mutava. Io non ci credo al teatro che deve stare lì bello e imbellettato, ma siccome in Italia è diventato solo appannaggio dello Stato, ora c’è questa specie di sensazione per la quale il teatro deve stare in una bolla, e deve essere intoccabile. Invece io credo al contrario che ci dobbiamo porre delle domande: perché anche i ceti più benestanti, che pure vanno a teatro, non si preoccupano della situazione? Perché è il modo in cui viene percepito. Io faccio teatro, e agli occhi degli altri è come se facessi volontariato. Volendo essere ottimista, questa dovrebbe essere la questione che ci dovremmo porre dalla fine della pandemia rispetto sia a come interagisce l’istituzione con noi, sia come noi interagiamo con l’istituzione e tra di noi.»
Mauro Lamanna (Catanzaro, 1990) è attore, produttore e autore teatrale e cinematografico. Romano d’adozione, ha lavorato con registi e attori internazionali (Danny Boyle, Donald Sutherland). A teatro è anche autore e regista: con Crisis – la vera storia di Osso, Mastrosso e Carcagnosso, vince il festival romano “ShortLab” come miglior regista. Ha anche fondato il collettivo d’artisti Divina Mania, con cui si occupa di sviluppare e produrre progetti teatrali e di cinema. Mauro interpreta anche Andrea Incanti nella serie tv di successo Skam Italia.