Il 31 ottobre del 2018 Mariasilvia Spolato si spegneva nella casa di riposo a Bolzano. Con lei se ne andavano i segreti di una vita passata al margine. Condannata per sempre all’oblio da una società perbenista e ipocrita. Incapace di guardare alla sofferenza e, in realtà, profondamente convinta che lei, Mariasilvia, quella sofferenza se la meritasse. Perché se vieni a meno ai rigidi schemi della morale borghese, infondo, te lo meriti di essere marginalizzata. Te lo meriti se scegli per te stessa, se non vuoi rendere conto a nessuno. Te lo meriti se, come Mariasilvia, sei lesbica e scegli di non nasconderti.
Questa era la dunque la sua colpa, il suo “peccato”. Ciò che però Mariasilvia pagò più di tutto fu il fatto di essere la prima. Nessuna infatti prima di lei aveva avuto il coraggio di dichiararsi al mondo. Lei invece lo fece e il mondo la mise a tacere.
Così, per molto tempo, la storia si dimenticò di Mariasilvia Spolato e del suo sacrificio così importante per tanti. Per questo, oggi, per questa puntata della rubrica “Le venti donne dimenticate dalla storia” ci occupiamo di lei.
Storia di una ragazza “diversa”
Chi era Mariasilvia Spolato? Non è facile rispondere a questa domanda. Farlo infatti significa cercare di re-intrecciare i fili, spesso scollegati e inconcludenti, della sua vita. Poco sappiamo infatti dell’infanzia e dell’adolescenza quando, tra le vie di Padova, Spolato aveva, probabilmente, iniziato a comprendere che lei non era come tutti gli altri. Lei non era come la società si aspettava che fosse.
Non potremmo mai sapere come e quando lo capì ma possiamo provare a immaginare la morsa nello stomaco e la sensazione di vedere cancellate tutte le proprie certezze. In una società dove gli omosessuali erano dei depravati o, nella migliore delle ipotesi, dei malati da internare, Mariasilvia scoprì di esserlo anche lei. Improvvisamente capì di essere dalla parte sbagliata della narrazione e a quel punto si trovò davanti a due possibilità. La prima era sparire: nascondere tutto e viveri nell’ipocrisia di una vita imposta dalla società. La seconda faceva più paura: lottare per non annularsi, per vivere. Mariasilvia scelse quest’ultima e le conseguenze non tardarono ad arrivare.
Gli inizi
L’attivismo di Mariasilvia Spolato si colloca attorno agli ‘70. Vicina agli ambienti femministi e, in particolare, al collettivo “Pompeo Magno”. Spolato tuttavia sentì fin da subito l’assenza, in quegli ambienti, della sua esperienza nel racconto che si faceva dell’oppressione della donna. Come poteva, d’altra parte, sentirsi rappresentata da una visione eteronormata per la quale la sua stessa esistenza non era prevista?
Così Marisilvia diede inizio al proprio attivismo, inizialmente in solitaria, fondando nel 1971 il Fronte di Liberazione Omosessuale (FLO). Un’esperienza che prese vita grazie al suo coraggio e che confluì, successivamente, nella più generale esperienza del movimento di liberazione omosessuale italiano. Mariasilvia stava facendo la rivoluzione e scelse di farlo mettendoci la faccia prima, tutta la sua vita poi.
Alla manifestazione dell’otto marzo del 1972 si presentò con un cartello attraverso il quale dichiarava la sua omosessualità. Quel cartello fu il primo atto di visibilità lesbica in Italia e, fotografato, finì sulle pagine del quotidiano “Panorama”. Fu l’inizio della fine. Qualche mese dopo ad un manifestazione contro un congresso di sessuologia, in cui si parlava di omosessualità come di devianza, diede il suo nome al “Corriere della Sera” e la situazione immediatamente precipitò. A causa del suo attivismo, nel giro di poco tempo, Mariasilvia Spolato perse tutto, a partire dal suo stesso lavoro di professoressa.
Una narrazione classista
Mariasilvia Spolato era infatti un’insegnate di matematica e su questo aspetto della sua vita è forse necessario soffermarci maggiormente. Facendo ricerche in giro infatti scopriamo che proprio su questo punto vengono date informazioni false. Sui principali articoli che parlano della sua vicenda e sulle pagine web a lei dedicate viene detto che si laureò con 110 e lode e che insegnò all’università. Entrambe queste informazioni non sono vere. Mariasilvia Spolato si laureò con 85 su 110, dopo aver ripetuto quattro esami, e non insegnò mai all’università bensì alle scuole superiori, prima di essere allontanata perché ritenuta indegna.
Ma stando così le cose, come è stato possibile che in tanti si siano sbagliati? Non possiamo avere una risposta definitiva a questa domanda ma provare ad ipotizzare la risposta potrebbe essere più interessante di quanto sembri e per farlo dobbiamo partire dal sotto-testo. Quando scriviamo (o teniamo un discorso) le parole che usiamo assumono un significato ulteriore, un senso che dialoga con il contesto e anche questo è il caso.
L’insistenza sui presunti meriti accademici di Mariasilvia Spolato sembra infatti voler sottolineare come l’ingiustizia da lei subita sia tanto più grave in virtù delle sue straordinarie capacità. Ciò che si sottintende è “Quello che è successo è terribile perché abbiamo allontanato una mente geniale”. Il problema però sta proprio qua. Quanto è successo a Mariasilvia Spolato è grave indipendentemente da chi lei fosse o da cosa facesse per vivere. Le hanno rubato la vita. Le hanno tolto la sua indipendenza, privandola del suo lavoro. Le proporzioni del danno arrecatole sono gravissime e lo sarebbero state anche se non fosse mai stata laureata, anche se in università lei non ci avesse mai messo piede. Far intendere qualcosa di diverso da ciò è classismo e della peggiore specie.
L’emarginazione
Nei mesi successivi al licenziamento Mariasilvia riusci a prendere in affitto una casa che divenne però ben presto la sua prigione. La perdita del lavoro e di ogni punto di riferimento la fecero sprofondare in una spirale di disagio mentale che la spinsero sempre a più a diradare i rapporti con il mondo esterno fino anche ad allontanarsi anche dalle compagne del collettivo femministe. La lotta continuava ma Spolato, ormai allo stremo, non aveva più la forza di farne parte.
La situazione precipito ulteriormente quando, ormai priva di mezzi economici, fu costretta a rinunciare alla casa e a divenire, di fatto, una senzatetto. Sola e senza più alcun appoggio, inizio a prendere i treni di notte per poter stare al riparo. Con il treno arrivava fino a Bolzano, luogo della sua infanzia, per poi tornare indietro. Non sappiamo molto di quegli anni, consegnati all’oblio dalla resistenza di Mariasilvia stessa, restia ad accettare qualsiasi tipo d’aiuto o a qualsiasi contatto umano. Chi l’ha conosciuta nei suoi ultimi anni di vita, racconta però che nelle parole di Spolato si sentiva spesso una paura figlia, probabilmente, delle violenze subite in quegli anni.
Così per anni Mariasilvia fece avanti e indietro sui treni finché la sua salute non si aggravò. Una cancrena alla gamba costrinse, verso la fine degli anni ‘90, i servizi sociali ad indirizzarla verso una casa di cura per donne, dove acconsentì di entrare a patto di non essere limitata nella sua libertà. Il patto funzionò ma ben presto, con l’arrivo della vecchiaia, fu necessario spostarla all’interno di una casa di riposo. Qui, dopo un iniziale diffidenza, Spolato riuscì a trovare quell’affetto e quel calore umano che per tutta la sua vita le erano stati negati e qui se ne andrà, lasciandoci in eredità un mondo un po’ più giusto anche grazie al suo sacrificio.
Un importante eredità
La storia di Mariasilvia Spolato fu dunque segnata profondamente dalla cattiveria e dall’ignoranza umana. La sua esistenza, le sue passioni e il suo futuro furono cancellati da chi la riteneva indegna non solo all’insegnamento ma alla vita stessa. Mariasilvia pagò tanto (troppo) per il suo coraggio. Quel coraggio grazie alla quale oggi le cose sono, in parte, più facili per molti.
A Mariasilvia Spolato dobbiamo molto, tutti, per aver contribuito a creare una società più giusta. Per questo non possiamo dimenticarla ne possiamo non provare a continuare il cambiamento perché il suo sacrificio non sia vano e perché mai più accada ad altri ciò che ha subito lei.
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