Recentemente ha fatto molto discutere la sentenza della Corte Costituzionale sul doppio cognome attribuibile ai figli nati nel matrimonio. Basta con l’automatica attribuzione di quello paterno e via alla libera scelta dei genitori di dare doppio cognome o solo quello di uno dei due. Vero che l’argomento è stato oggetto di dibattito ma nel Marghedì non c’è spazio per le discussioni: solo spunti di conversazione. Il tema mi ha fatto pensare a quante cose, in effetti, non sappiamo sul cognome. Eccovene alcune.
Salvati dall’omonimia
In epoca romana esistevano già dei registri in cui venivano annotati, per il censimento, il praenomen (ovvero il nome personale, di battesimo diremmo oggi) e l’indicazione della gens (ossia la famiglia) di provenienza. Quando, però, i casi di omonimia cominciarono a diventare troppi, si ricorse all’indicazione anche di un cognomen, ovvero il soprannome. La natura del soprannome la decidevano variabili fisiche, professionali, di provenienza geografica. Con la caduta dell’Impero Romano abbiamo perso praticamente tutti i cognomi “generati” in quell’epoca e, fu solo a partire dall’XI secolo che, con l’aumentare della popolazione in Europa fu imposta la registrazione dei cittadini con nome completo. Pratica resa obbligatoria, poi, dal Concilio di Trento nel 1564 per il quale i parroci dovevano tenere un registro con i dati di tutti i bambini battezzati.
Nel mondo
Immaginiamo di poterci riconoscere tutti in un nome ed un cognome, così siamo abituati fin da piccoli. Quando, magari alle scuole medie e superiori, anche tra compagni di classe, ci si chiamava solo con il cognome, non pensavamo che in alcune parti del mondo questo in realtà non si usa. Ad esempio in Etiopia ed Eritrea, il nome di ogni individuo è costituito dal proprio seguito da quello del padre o, in rari casi, della madre. Nei Paesi Arabi, il nome di un individuo è legato alla identificazione della sua discendenza paterna. Storicamente, non parliamo solo di nome e cognome che identificano una persona ma di una Kunya (nomignolo in relazione al figlio, ad esempio, per un padre, come Abu (padre) + nome del figlio); un Ism (nome proprio), un Nasab (il patronimico, come IBN o BINT – figlio o figlia di); una Nisba (che indica la provenienza geografica); un Laqab (soprannome o titolo onorifico). Dal XVIII secolo si è andati verso una “cognomizzazione” che prende spunto per lo più dal Laqab. Ancora, in Paesi come Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Russia, i cognomi se presi da donne subiscono un processo che si chiama přechylování: molti cognomi femminili terminano in –ová, questa particella trasforma il sostantivo in aggettivo possessivo. Quindi Sharapov diventa Sharapova “lei che appartiene a Sharapov”.
Il cognome “imposto”
In Italia ci sono alcuni cognomi che sembrano definire la provenienza di chi li possiede. Altri che definiscono uno status sociale, quantomeno del primo che ha iniziato la discendenza. Ai trovatelli e agli orfani, privi per natura di un cognome, ne veniva imposto uno: Diotaiuti, Degli Esposti, Trovati, Innocenti, Esposti e Proietti. Quest’ultimo, dal latino proiecere, ovvero abbandonare, gettare, si riferiva proprio a quei bambini abbandonati, magari attraverso le ruote degli esposti delle chiese.
Primati interessanti
Sapete qual è il cognome italiano più lungo? Quondamangelomaria, di ben 18 lettere, presente in provincia di Roma e Viterbo, Seguito da ‘Stampachiacchiere e Giuratrabocchetti. E avete mai pensato a quanti in Italia portano un cognome “sacro”? Ovvero quelli che hanno un santo all’interno del proprio nome di famiglia? È interessante sapere che esiste una regione di Italia con il più alto numero di cognomi che includono un nome di santo e si tratta della Campania con una sfilza di Sanciro, Sanfelice, Sannazzaro, Santaniello, Santamaria.