“Fare della propria vita la prima delle opere d’arte”. In questa frase è racchiusa l’essenza dell’estetismo, movimento artistico della seconda metà dell’ 800. L’arte per il gusto dell’arte. L’arte che si apprezza esclusivamente con gli occhi, quasi un abbraccio tra due palpebre.
Ma se da quei quadri estraiamo la bellezza ciò che ci resta è una tela vuota e amorfa.
L’arte astratta, invece, ha la capacità di costellare la bellezza di domande. Così che quegli stessi occhi, disincantati dall’abbraccio delle palpebre, possano ora osservare e non più passivamente guardare.
Per ogni colore, una domanda.
Per ogni forma, una carezza.
È proprio questa la sensazione che si ha osservando le opere dell’artista Gaia Percacciuolo. Nata a Napoli nel 1988, ha frequentato il Liceo Artistico di Napoli e nella stessa città si è laureata con lode in Pittura presso l’Accademia delle Belle Arti. La sua tesi, incentrata sul fibroma all’utero (malattia di cui l’artista ha sofferto), rappresenta la quintessenza dell’arte che può essere intesa come rinascita, una resilienza che fiorisce nei momenti più bui.
Ciao, Gaia, grazie per aver accettato quest’intervista. Ci parleresti del tuo primo approccio all’arte?
Sin da quando ero piccola ho sempre vissuto la mia propensione al creare come un’inclinazione naturale. Da bambina mi lasciavo inebriare dall’odore delle tempere dei primi colori. È stata quindi quasi una scelta obbligata proseguire il mio percorso di studi dapprima al Liceo Artistico di Napoli, per poi laurearmi in Pittura all’Accademia delle Belle Arti. Per me creare, oltre a una necessità, rappresenta anche dialogo e catarsi. Attraverso i miei lavori sono riuscita ad esprimere il dolore della malattia e la bellezza della rinascita.
Cosa vuole trasmettere la tua arte?
La mia arte vuole trasmettere positività e amore verso l’altro, verso chi osserva l’opera e vi si immedesima. Amo molto l’arte astratta, materica, informale. L’arte che puoi toccare. L’arte che prende vita e che puoi quasi osservare uscire fuori dalla superficie sulla quale è stata creata. Io stessa voglio diventare un tutt’uno con le mie opere, e infatti lavoro con le mani. È un gesto primitivo, da bambino. Ciò che creo è una naturale estensione di ciò che sono. È come se ci fossi io su quel foglio. Una me forte e al contempo vulnerabile, che si lascia contemplare e decifrare a seconda del gusto dell’osservatore.
A quali mostre hai partecipato?
Ho esposto per la prima volta presso l’Oratorio di Santa Maria della Fede , complesso napoletano restaurato e convertito in spazio collettivo e riaperto al pubblico col nome di Santa Fede Liberata. Affiancammo alle nostre opere i manoscritti de La scienza nuova di Giambattista Vico. Io scelsi quello sui corsi e ricorsi storici, l’umanità che cresce, crea, si corrompe e sprofonda nel buio per poi rinascere, in un’inarrestabile ciclicità. Per l’occasione creai una spirale costruita con stucco, gesso e colla, dunque materica. La storia che si accavalla, appunto, come una spirale.
Ho poi partecipato a una seconda esposizione, Ricordi Dormienti, presso l’ex convento delle Teresiane a Napoli, restituito alla collettività col nome di Giardino Liberato. Il tema della mostra era appunto quello di portare alla luce i ricordi di chi aveva vissuto quel luogo e ridarne una nuova dignità, reinterpretando i resti di lettere, fogli, abiti che abbiamo ritrovato durante la pulizia del giardino. Ho creato la mia opera utilizzando drappeggi di lenzuola che rappresentavano, anche questa volta, una spirale, a voler sottolineare la meravigliosa essenza dell’essere umano, che calca strade, crea, gioisce e soffre, per poi scomparire ma mai del tutto, ritornando sotto forma di ricordo. Ho intitolato la mia opera Gentile signorina proprio rifacendomi alla prima riga di uno dei carteggi ritrovati. È stato un omaggio alle donne che hanno abitato quel luogo.
Hai menzionato la malattia e il ruolo fondamentale che ha avuto l’arte per la tua rinascita. Ce ne parleresti?
Ho voluto raccontare la storia del mio fibroma all’utero attraverso delle stampe calcografiche per sensibilizzare le donne ad una corretta e tempestiva prevenzione attraverso una semplice visita dal ginecologo. Le stampe sono caratterizzate dalla matericità dell’inchiostro, e il torchio che pressava il foglio, durante la realizzazione dell’opera, è stata una proiezione del senso di oppressione che ho provato durante quel periodo. Dopo quest’esperienza i miei lavori hanno subito un’inclinazione verso i temi delle donne. Non è un caso che, durante la mostra Ricordi Dormienti, abbia voluto omaggiare proprio la figura femminile.
La spirale è un tema ricorrente nelle tue opere. Che significato le attribuisci?
Per me la spirale è simbolo di nascita e rinascita. È una curva in continua evoluzione, che non ritorna mai nel punto in cui prende vita, pur sfiorandolo. La trovo una perfetta sintesi della vita. La spirale inganna l’occhio, lo confonde e lo porta a dubitare della realtà alla quale è abituato. È una coda in continuo movimento, ti avvolge e ti racconta qualcosa. È un abbraccio morbido, come acqua che scorre. Lo stesso gesto circolare ripetuto dalla mano è un segno di liberazione.
Giuseppe De Filippis
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