Il dramma della solitudine
Cronache di un BL

Covid-19: Il dramma della solitudine, la certezza che ci sarai. Sempre

Tempo di lettura: 3 minuti

Non avrei mai sognato di scrivere qualcosa per una persona che non c’è più.
In primis perché da giornalista ho sempre cercato di essere super partes e di raccontare la realtà senza filtri, senza farmi sopraffare dalle emozioni.
In secondo luogo per una questione caratteriale: sono sempre stato particolarmente riservato, soprattutto per quanto riguarda le persone a me care.

Stavolta però credo sia arrivato il momento di farlo. E come sempre, da giornalista, mi tocca iniziare dalla realtà che in questo caso è estremamente difficile da accettare, triste, ingiusta.
Mi tocca cominciare dal vero dramma di questa pandemia: la solitudine.

Perché è quello che succede quando qualcuno finisce in terapia intensiva a causa del Covid-19. Si è soli. Qualcuno ha mai pensato a cosa possano provare le famiglie quando un proprio caro è in terapia intensiva a causa del Covid? Ve lo dico io: totale solitudine. Si entra in una dimensione strana, asfissiante. Il tempo si ferma, la mente no. Lei viaggia, fin troppo.

Si vive nell’attesa di ricevere notizie che diventano sempre più frammentarie e che arrivano una volta al giorno, intorno alle 18: “la situazione è stabile“. Nessuna spiegazione, poche parole che devono bastare ma che non bastano mai. E nel mezzo c’è l’attesa, snervante, la speranza, l’incredulità. La disperazione. Un calvario che si va ad aggiungere a quello dei pazienti intubati. Inermi. Soli.

A patto che ci si riesca ad arrivare in ospedale. Perchè oltre i proclami trionfalistici dei vari politici di turno la situazione è a dir poco aberrante. Ambulanze che tardano ad intervenire e l’ossigeno che spesso manca nelle farmacie.

Tu c’eri arrivato in ospedale. E una volta lì volevi tornassimo a casa, tanto “ora respiro bene“. Whatsapp è uno strumento meraviglioso, ma che può diventare struggente. Avevi la saturazione bassa, forse troppo, ma nel frattempo ci hai inviato qualche foto con tanto di casco per la respirazione. Perché? Volevi “tranquillizzarci” ed hai pensato alla tua famiglia, prima di tutto. Prima ancora della tua salute.

Hai parlato anche con me, ci siamo scambiati qualche messaggio come quando giocava il nostro Napoli. L’appuntamento fisso dopo ogni partita. La nostra personalissima “Domenica Sportiva”. “Quest’anno ci divertiremo” hai scritto dopo una delle ultime partite…

Da lì a poco il silenzio, la solitudine. Il trasferimento in terapia intensiva. Il pensiero fisso delle sei di pomeriggio, la chiamata in ospedale e la ricerca spasmodica di informazioni extra, di qualche buona notizia. “Sta reagendo, l’infezione pare diminuire”. E invece no. Il tuo cuore si è fermato quel sabato mattina. Ed il nostro mondo si è fermato con quella telefonata.

Non ti conoscevo da molto tempo, Enzo. Un anno e mezzo, forse qualcosa in più. Ma ho conosciuto la tua storia, la tua vita, grazie agli occhi di tua figlia. Quegli occhi che mi hanno fatto innamorare e che sono sempre stati pieni d’amore e d’orgoglio per te.

Ed al primo pranzo insieme, quando mi hai chiesto di andare a fare il caffè, ho capito di aver trovato un amico. Il tempo trascorso insieme me l’ha confermato.

Ti guardavo con ammirazione. Avevi avuto un’infanzia difficile ed avevi già sconfitto la morte due volte.  Eri nato “senza camicia”, ma con i sacrifici ed il lavoro ti eri conquistato la stima di tutti ed una vita felice, una famiglia meravigliosa, un futuro diverso.

Con l’unico obiettivo di proteggere ed amare tua moglie, i tuoi figli, tuo nipote. Ed un concetto che ripetevi come un mantra. La mia famiglia è tutto.

Ci sei riuscito.

Ed ora sono qui, cercando di renderti omaggio con queste poche. Ripensando al tuo sorriso contagioso credo sarebbe sacrilego non raccontare della tua voglia di vivere. Del tuo faccione felice, della tua voce inconfondibile e della musica a palla in macchina. “Ci andiamo a mangiare una pizza insieme stasera?“.

Ti vedo ancora lì, in spiaggia, perennemente al sole, con l’immancabile bandana, gli occhiali da sole e le cuffie. Mentre io mi ritaglio l’ennesimo spazio al fresco sotto l’ombrellone. Tra i due il vecchio ero io. Senza alcun dubbio.

E ti vedo ancora scendere le scale con i tuoi jeans stretti, la camicia ed il chiodino in pelle. “Enzo, stai benissimo vestito così e mi piacciono le tue scarpe”. Mi hai sorriso e ringraziato, più tardi mi hai offerto il solito cicchetto post cena. “Andrè, ce lo facciamo un cicchettino?”.

Ti ho conosciuto poco, Enzo. Un anno e mezzo, forse qualcosa in più. Ed è questo il mio rammarico più grande. Ma sono felice di aver conosciuto un uomo vero, genuino e gentile. Spinto da una nobiltà d’animo rara e dall’altruismo.

E’ giunto il momento di salutarti ed è estremamente difficile farlo. Come è difficile scegliere il titolo di questo pezzo che non avrei mai voluto scrivere. Ti saluto, però, con una certezza: Sei stato sempre presente e so che troverai il modo di esserci ancora per la tua famiglia, per quel bambino che porta il tuo stesso nome e per me. Sempre.

Ps. Tu già sai, un abbraccio a loro.

 

How I wish, how I wish you were here  

We’re just two lost souls  

Swimming in a fish bowl  

Year after year  

Running over the same old ground  

And how we found  

The same old fears  

Wish you were here”.

Andrea Tarantino

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