Solo chi organizza una partita di calcetto e, all’ultimo momento, rischia di veder vanificati i suoi sforzi diplomatici dai dubbi sul decimo partecipante, può capire l’angoscia di Giuseppe Conte. Ore di trattative, di lavoro ai fianchi, di psicologia inversa e diretta per convincere tutti a scendere in campo. Sembra il destino del premier, chiamato a fare da pompiere, paciere e, se necessario, pretore per mettere tutti d’accordo. Senza disturbare Winston Churchill, possiamo dire che il calcio a volte è fatto anche di politica ma la politica è vissuta come il calcio. Lo dimostra l’ultimo anno e mezzo: settimane di confronti non per avere un esecutivo, bensì a “fare le squadre”. Immaginiamo come.
Il pallone è mio
La metafora calcistica torna e ritorna nel mondo della politica. Lo fece Berlusconi nel ‘94, in quell’epico video per cui meriterebbe il Leone d’Oro alla carriera (a Venezia, dove la mostra del Cinema è in corso proprio in questi giorni, avrebbero dovuto darlo a lui, altro che Mary Poppins). Lo fanno i giornalisti quando parlano di derby tra opposte tifoserie parlamentari e lo fanno soprattutto loro, i politici: veri e propri ultrà che dagli scranni esibiscono striscioni, fanno volare fischi, insulti e persino mortadelle. Tornando all’attualità, la composizione dei team deve essere andata più o meno così: è risaputo che chi porta il pallone ha maggiore potere decisionale. Dunque eccolo lì: Luigi Di Maio, forte del suo 33% datato 2018 pronto a chiedere garanzie sul suo posto in squadra. Poi c’è sempre quello scarso ma, non avendolo mai visto giocare sul serio, lo scegli comunque: è giusto dare fiducia a chi è alle prime partite, un po’ il caso di Zingaretti. Immancabile è il furbo, quello che nella scorsa partita ha imbarcato goleade, tunnel e umiliazioni tanto da decidere di cambiare casacca. Matteo Renzi per essere chiari, lui non gioca mai a perdere. Poi c’è Patuanelli, passava di là.
Gli sfidanti
A schiumare rabbia nell’altra metà campo, un quintetto d’eccezione, un misto tra tecnica e quantità. Giorgia Meloni in versione Pasquale Bruno, centrocampista di grande temperamento e con l’istinto omicida. Altrettanto grintoso ma con una condizione da verificare Matteo Salvini. Le giornate al Papeete (era impossibile non riciclare la solita battuta) e le botte prese dai vecchi alleati, ne minano la tenuta. Altro ex avvelenato, Carlo Calenda, andato via in stile Bonucci dalla Juventus al Milan. Il tempo dirà se anche per lui arriverà il pentimento. A completare lo scacchiere tattico un avvelenatissimo Enrico Mentana. Come perché? Perché la nuova partita di governo interrompe le maratone della “crisi”. Arbitro, neanche a dirlo, il signor Giuseppe Conte di Foggia, al Var Sergio Mattarella di Palermo. Come dite? Manca il decimo? No, semplicemente c’è chi vale per due, come Luigi di Maio che magari, all’ultimo, farà saltare tutto. Coerenza dei ruoli.
“’ccezionale!”
Luca Villari