Cultura

Gauguin: egocentrico, pedofilo e colonialista. Ma ha anche dei difetti

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Paul Gauguin, un nome una garanzia. Tra colori potenti e storie d’amore romanzate con il collega Vincent Van Gogh, è uno dei nomi più famosi e chiacchierati della pittura postimpressionista, vero trait d’union tra il moderno e il contemporaneo.

Di scandali Gauguin ne fece già in vita, e non solo per la sua pittura. La cosa non lo ha mai rattristato: Paul, più di tutti, nutriva un’ambizione che mal celava il suo grande egocentrismo. Probabilmente sarebbe felice di sapere che anche oggi, un secolo dopo la sua morte (9 maggio 1903), la sua vita e i suoi lavori continuano a fare scandalo, e che gli è stata affibbiata un’ennesima, orrenda colpa: quella di aver appoggiato le politiche colonialiste e di essere stato un razzista pedofilo.

A far venire alla luce questo aspetto è stata la National Gallery di Londra, con una retrospettiva sui suoi ritratti (in particolare quelli polinesiani). La mostra ha chiuso i battenti il 26 gennaio 2020, dopo aver lasciato sgomenti migliaia di visitatori con una domanda: “È ora di smettere una volta e per tutte di ammirare Gauguin?”

Una vita in viaggio

La vita di Paul Gauguin è riassumibile in un viaggio perpetuo tra tre continenti: Europa, America (meridionale) e Oceania. Appena un anno dopo la sua nascita – Parigi, 1848 – era già in viaggio per il Perù, dove trascorse la prima infanzia. Tornò nella capitale poco più che diciassettenne, con già alle spalle una grande serie di viaggi per mare. Ma il suo desiderio di fare pittura lo portò a stabilirsi prima a Orléans e poi, successivamente, nella capitale francese.

Non va dimenticato che a quelle date la pittura più in voga era ancora quella impressionista. Il giovane Paul frequenterà infatti molti artisti dell’en plein air, mostrando però già un bisogno stringente di allontanarsi da tutto ciò che avesse a che fare con lo spirito borghese. In primis, figurazione di scene classiche di cittadine e paesaggi, per orientarsi poi verso una pittura che parlasse più tramite il colore che tramite le figure.

L’insofferenza alle convenzioni borghese e alla vita della fiorente città industriale non fece che crescere nell’animo dell’artista. Per questo motivo, dopo un primo (e non molto proficuo: sappiamo tutti come finisce) soggiorno nel sud della regione bretone con il collega Van Gogh, Gauguin vende tutti i suoi averi per acquistare un biglietto e imbarcarsi verso Tahiti, allora parte della colonia della Polinesia Francese.

La National Gallery processa Gauguin

Il museo londinese ci ha offerto a inizio anno la prima mostra dedicata alla ritrattistica del pittore francese, ed anche la prima ad affrontare la questione dei suoi rapporti con le giovani polinesiane raffigurate nelle sue opere.

Gauguin sbarcò per la prima volta a Tahiti nel 1891, trattenendosi per due anni. Poi vi tornò nel 1897, per abbandonarla 4 anni dopo e trasferirsi a Hiva Oa, dove – udite, udite – morì in carcere, malnutrito, perché si oppose alla politica razzista dei governatori francesi.

Tutto, nell’esposizione, parla di disgusto verso questa figura: dalle didascalie («La volontà di Gauguin di adottare un’identità non bianca per enfatizzare la sua “alterità” e la presunta “ferocia” dei suoi impulsi creativi è emblematica della sua visione del mondo, in definitiva, eurocentrica, coloniale»), ai ritratti scelti (polinesiane vestite all’occidentale, ritratti di famiglia dove l’artista è la figura imponente mentre figlio e moglie appaiono a stento visibili, e distanti).

Il co-curatore della mostra, Christopher Riopelle, ha dichiarato una profonda delusione nei confronti dell’artista. L’impellente bisogno di fare arte avrebbe portato Gauguin a «fare del male e abusare di tante persone». Ashley Remer, fondatrice del Girl Museum, subito si è schierata a favore del curatore, definendo Gauguin un «pedofilo arrogante, paternalistico e sopravvalutato».

Il polverone è stato sollevato. Il merito della National Gallery sarebbe dunque quello di aver finalmente valutato le opere non più meramente da un punto di vista estetico. O forse no?

Contestualizzare

Parola d’ordine: contestualizzare. Guardare alla vita di un artista – peraltro, psicologicamente particolare come quella di Gauguin – senza un filo di contestualizzazione, o un tentativo di comprensione che vada oltre il proprio naso, appare assolutamente audace, e anche un po’ un salto nel vuoto. Le azioni di Gauguin ai nostri occhi non sono minimamente accettabili o giustificabili. I nostri occhi, però, sono occhi del XXI secolo, e questo non andrebbe dimenticato.

Paul Gauguin, più di tanti altri artisti, ricercava una condizione di vita naturale e primordiale, primitiva, che all’epoca era ritrovabile nelle popolazioni del Sud America e in alcune colonie francesi. E questo non perché quei popoli non fossero sviluppati o addietro prima dell’arrivo dell’uomo bianco: semplicemente perché, a rigor di logica, ancor prima della colonizzazione la loro struttura sociale ed economica non era caratterizzata dall’industria. Avevano, in poche parole, mantenuto un contatto primitivo con il mondo che in occidente era ormai scomparso.

«La convinzione che la forma più felice di vita sia quella risalente al primo periodo dell’umanità (una mitica età dell’oro), in parte ancora presente nei sopravvissuti popoli primitivi, ha come conseguenza la sfiducia nella civiltà moderna, con il suo progresso tecnologico e le sue istituzioni sociali e politiche. Da qui l’idea di recuperare quella presunta libertà originaria che si identificava con la vita dell’uomo primitivo.»
definizione di primitivismo da enciclopedia Treccani

Che il colonialismo abbia accentuato questo modo di pensare, estremizzandolo in negativo, non riconduce necessariamente il trasferimento del pittore ad un asservimento politico. In tantissime lettere inviate ai suoi amici pittori, Gauguin scrive di essere deluso e amareggiato dall’influenza coloniale francese, che stava rovinando sotto i suoi occhi l’integrità tanto agognata.

Infine, ricordiamo che Gauguin per mangiare doveva vendere le sue opere: ogni volta che licenziava un dipinto in Polinesia, lo faceva avendo ben a mente il mercato francese.

Paladini della giustizia

Contestualizzare non significa, perciò, giustificare, quanto più comprendere, anche forzatamente, cosa abbia mosso verso certi pensieri e certe convinzioni.

Applicando lo stesso ragionamento perbenista di quest’analisi dei lavori di Gauguin, dovremmo condannare tutti i lavori di William Shakespeare, dichiarato antisemita, o di Van Gogh, colpevole del peccato del suicidio. O di Rembrandt che maltrattava la moglie, di Caravaggio che frequentava prostitute e le ritraeva come madonne. La lista è infinita, come è infinita la voglia di inquisizione dei progressisti per cui esiste un solo metro accettabile per riconoscere la storia: imporle retroattivamente il vangelo valoriale del XXI secolo. Per riscriverla, proprio come nei regimi illiberali.

Non resta che chiedersi chi sarà la prossima vittima di questa damnatio memoriae. Woody Allen? Il facoltoso collezionista – notare bene – francese che si è aggiudicato un Gauguin per 9,5 milioni di dollari?

Non è così facile mettere in discussione una prova artistica. Prima di farlo, sappiate utilizzare gli strumenti cognitivi e conoscitivi che fortunatamente oggi, nel nostro XXI secolo assetato di giustizia, abbiamo a nostra disposizione.

Sara Maietta
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Sara Maietta
Una vita ascrivibile all'ABCD: aspirante curatrice, bookalcoholic, catalizzatore di dissenso e dadaista senza speranze.