Non è mai troppo tardi per parlare del festival di Sanremo. Specialmente se, come quest’anno, il buffet è stato talmente ricco che manco la pancia di Christian de Sica alle 2.38 dell’ultima sera è riuscito a digerirlo tutto. Ma la verità è che questo festival ha rispecchiato esattamente la metafora di un’Italia che agli albori del nuovo decennio… come si può dire… va avanti “a cucci e spintoni”.
Un po’ come quando a scuola senti dire: “Sa sig.ra Europa, sua figlia è intelligente, ma non si applica. Dovrebbe credere molto di più in se stessa senza copiare gli altri. Invece tende all’America come Raphael Gualazzi tende ad assomigliare a John Belushi colorato!
Per non parlare dello spread, un tema ancora così caldo per lei. Ne soffre molto anche se a volte se lo scorda. La situazione però è ancora tale per cui neanche il bacio tra Fiorello e Tiziano Ferro potrebbe mai assomigliare a quello sul muro di Berlino.”
Meno male che, anche se a fatica, l’Italia non ha appeso le scarpe al chiodo. Tuttavia, se davvero volesse portare il cambiamento che da anni ogni governo proclama, si potrebbe togliere i tacchi come ha fatto la Venier. Darebbe così del gas senza avere paura di cadere dalle scale in corso d’opera.
Del resto, come darle torto. La sua storia è piena di eventi di trasformismo, tra politici che prima si amano e poi si odiano (o iodiano?) e poi si citofonano e infine escono di scena appena prima delle regionali. Livelli che nemmeno Morgan e Bugo potrebbero mai raggiungere in anni di prove. Come si fa a fare una buona politica in questo mare in cui anche le sardine sembrano essersi perse?
Me la immagino, questa Italia, vestita di tutto punto in bianco e nero tipo pinguino tattico nucleare. Anzi forse più tendente al Calimero del detersivo (Ama come l’ama!). E manco fosse il festival della canzone del capitano, facendo un passo indietro bailando già prima dell’inizio dello spettacolo, pesta una merda così grossa da mandare Emilio Fede in un brodo di giuggiole sull’altra rete.
Ma l’Italia che cade è la stessa che si rialza teatralmente (un po’ come la controfigura di Ghali che davamo già spiaccicato sul palco) ribadendo per l’ennesima volta la propria cultura sull’asse Firenze-Benigni. Ed è così che catapultiamo la mente ai gironi danteschi del liceo Maria de Filippi, dal quale ogni anno qualcuno fa un saltino e arriva direttamente al festival di Sanremo con tanto di cappello.
Si fatica a mettere da parte le tradizioni, un po’ come si fatica a rinchiudere Rita Pavone e l’evergreen Albano-Romina in casa di riposo. Ma incredibilmente, quest’anno casa Rai che non cambia mai (come il pizzetto di Piero Pelù) si è davvero superata. Ha dato spazio a quelle novità a cui aveva detto sempre “nonononononono grazie” alla Junior Cally.
Una ventata di aria fresca la triade delle buone nuove proposte (Fasma, Leo Gassman e Santa Tecla), sempre sperando non ci siano state raccomandazioni all’italiana. Per non parlare della rottura col passato di Achille Lauro imperlato (non solo di sudore) e la Lamborghini che twerka in-da-face al direttore Rai.
Finalmente si guarda la modernità negli occhi di Rai Play, un po’ come il mondo del lavoro italiano inizia a rivolgersi allo smart working. Un passo avanti per l’inclusione sociale che, grazie alle Vibrazioni, per la prima volta dopo 70 anni di Festival ha visto anche i non udenti ascoltare letteralmente la musica. E lasciato senza parole tutti gli altri per l’emozione.
Ma per la sua incapacità di salvarsi da sola, l’Italia porta in seno ancora molto Rancore dal momento che siamo lontani dall’Eden. Sociale, politico e lavorativo. Tanto che ogni anno si deve sempre ricordare a milioni di persone, mediante monologhi, che esiste ancora la violenza di genere e la violenza in genere.
A proposito di genere. Se questo doveva essere (com’è stato) il Festival delle donne, Rula Jebreal vince su tutte seguita in ordine dall’ironia di Sabrina Salerno, la dolcezza di Antonella Clerici e la seria timidezza di Diletta Leotta, alla quale però hanno appiccicato l’antisterotipo sterotipato per tutti quei richiami al calcio. C’è da dire comunque che in quattro non hanno fatto una Hunziker, le cui capacità di one-woman-show sono difficili da raggiungere.
Ed è così che il Festival di Sanremo diventa la metafora di un’Italia che si svecchia, come Irene Grandi dopo anni lontana dal palco. Dovrebbe “solo” fare più rumore ai tavoli che contano altrimenti non verrà mai considerata davvero e continuerà ad essere il fanalino di coda di una situazione europea così in continua evoluzione che si fatica a starci dietro.
Un po’ come Amadeus con l’orario di chiusura. Ma lo possiamo perdonare solo se l’anno prossimo ci porta le manone di Gianni Morandi all’Ariston.