Ogni 20 marzo ricorre la Giornata Internazionale della Felicità e, dato il momento storico che stiamo vivendo, parlare di felicità sembra un paradosso.
L’origine di questa ricorrenza
Questa giornata è stata istituita nel 2012 dall’ONU, che definisce la felicità come “uno scopo fondamentale dell’umanità, riconoscendo inoltre la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l’eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone […]
Invita tutti gli stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite e altri organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative e i singoli individui, a celebrare la ricorrenza della Giornata Internazionale della Felicità in maniera appropriata, anche attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica […]”.
Cos’è la felicità?
Personalmente, ritengo che la felicità sia uno stato di benessere fisico e psicologico. E sopratutto si tratta di una condizione relativa, in quanto dipende non solo dalla persona, ma anche dal contesto in cui si vive e dalle possibilità e opportunità che questo ambiente ti offre per raggiungerla.
L’ONU sottolinea, infatti, la necessità di adottare un approccio più inclusivo. Un approccio che permetta di sciogliere ed equilibrare un po’ le disuguaglianze sociali ed economiche presenti nel mondo. Difatti, raggiungere uno stato di benessere e felicità non è possibile per tutti allo stesso modo.
Le disuguaglianze esistenti, quindi, sono un ostacolo a questa ricerca e sviluppo personale.
#Stareacasa non vuol dire serenità
Vorrei fare un esempio riguardo alla situazione attuale.
Il nuovo virus ci costringe a rimanere in casa, ma non per tutti è una situazione serena o, perché no, di possibile crescita. A parte l’ansia che in questo periodo ci accomuna, per alcune persone restare a casa diventa una situazione di estrema difficoltà. Per esempio, chi vive una situazione di violenza o chi soffre di disturbi alimentari o mentali.
In determinate situazioni, la casa non è un luogo sicuro, ma diventa solo un altro ambiente di sofferenza. E allora quella passeggiata fuori, quell’uscita al parco ogni tanto, un momento che rievochi la solita routine diventano un appiglio, un salva vita. Venendo a mancare questa libertà, il dolore aumenta.
Vivere serenamente in casa, poter andare ancora a lavorare sono un privilegio in questo momento. Rendiamoci conto, quindi, che la situazione non è uguale per tutti e sì, ci sono persone per cui stare chiuse in casa diventa una difficoltà enorme.
Restiamo, perciò, in ascolto degli altri, della sofferenza e delle difficoltà. Non banalizziamo il dolore altrui, ma ascoltiamo e accogliamo.
Apriamo gli occhi
Il mio invito è quello di ricordarci di queste disuguaglianze e differenze esistenti nella vita delle persone, di non giudicare quando non si conosce la situazione e di non dare per scontato che bastano volontà e impegno per essere felici: non è così semplice.
Quello che noi possiamo fare è offrire sostegno e supporto e restare sempre in ascolto dell’altro. Non si può eliminare tutto il male di questo mondo, ma è possibile aiutare, accogliere, alleviare un po’ il dolore. Offrire opportunità di crescita e sviluppo per far sì che ogni persona si renda conto delle sue potenzialità e possa arrivare a sfruttarle.
Apriamo gli occhi e rendiamoci conto che la felicità non è alla portata di tutti, ma dovrebbe essere, invece, possibile per chiunque avere la possibilità di fiorire.
Articolo a cura di:
Sara Najjar