Questo contributo fa parte della nuova rubrica “Dillo a Borderlain”, che si propone di raccogliere le storie inviate dai lettori su argomenti scelti dalla redazione. Il tema scelto per inaugurare questa rubrica è “Quarantenando”, per il quale abbiamo chiesto ai nostri lettori di raccontarci come stanno vivendo l’isolamento, quali sono le loro paure e i loro sogni per il futuro.
Se anche tu vuoi partecipare a “Dillo a Borderlain”, invia il tuo contributo all’indirizzo email redazione@borderlain.it.
Giovedì 12 marzo 2020
Barcellona, Catalogna (in omaggio ai miei amici indipendentisti)
La mattina ha un sapore un po’ strano, agrodolce. È un sapore che mi piace, ma che conserva quel senso di malinconia proprio dell’ultimo giorno del trimestre, l’ultimo giovedì interminabile di corsi, i minuti scanditi dalla filosofia ermeneutica e dagli studi sul nazionalismo. In pausa pranzo si è parlato un po’ di coronavirus, ma sempre come qualcosa di lontano, che al massimo aveva colpito Madrid e qualcuno che era da poco tornato dall’Italia ma insomma, nulla di allarmante. Va tutto bene. “Va tutto bene”, mi dice Antonio davanti ad una Estrella Damm e ad una porzione di patatas bravas. Sono le otto di sera, siamo tutti insieme al solito bar a bere la solita cerveza dopo le lezioni. Dieci studenti di filosofia seduti al solito tavolino a parlare di cose-non-cose. Sembra quasi una serata normale, ma sappiamo tutti che non lo è, in fondo. Perché va tutto bene, sì, ma Liu, il proprietario del bar, ci dice che chiuderà per precauzione. Quella sarebbe stata l’ultima sera che il BJ sarebbe stato aperto, perché lui ha familiari in Cina e sa che quella storia tanto remota del coronavirus non è da prendere alla leggera. Tra un sorso e l’altro, Antonio mi dice che secondo lui “l’Italia ha esagerato nel dichiarare lo stato d’emergenza nazionale, è una violazione della libertà individuale.” Lui è di Valencia, e afferma con sicurezza che “in Spagna non succederebbe mai una cosa del genere.” All’improvviso mi chiama mia cugina, a Barcellona per la ricerca tesi. Mi dice che l’università l’ha contattata dall’Italia, che si parlava di rimpatriare ma lei non voleva. D’altronde, era tutto così ordinario nella bella Barcellona, sempre soleggiata e spensierata. Le dico che avrei fatto quello che avrebbe fatto lei, ma che avrei preferito aspettare almeno qualche giorno per rifletterci meglio. Torno al tavolino con i miei amici, e la serata si protrae fino a mezzanotte.
La notte ha un retrogusto metallico.
Venerdì 13 marzo 2020
Barcellona, ma solo in parte
Apro gli occhi e ci metto un po’ a realizzare di non dover andare all’università. Il trimestre è finito ieri, eppure fa sempre strano abituarsi al tempo vuoto che si ha improvvisamente a disposizione. Accendo il cellulare, ed è subito caos. I casi in Catalogna sembrano aumentati all’improvviso. Ci sono diversi focolai, ma la situazione è sotto controllo. È sotto controllo, sì, non ci sono molti casi. Non ci sono molti casi perché non si fanno molti tamponi. I voli da e per l’Italia erano stati bloccati, ma si poteva ancora andare in giro per il mondo, e il viavai da Madrid a Barcellona non s’era mica fermato. Insomma, si sapeva che era solo questione di tempo. Parlo con mia cugina, decidiamo di tornare in Italia. La mia decisione è motivata, in primis, dall’incubo dell’idea di una quarantena con i miei tre coinquilini, che ho sempre cercato di evitare il più possibile. Così decido di tornare, consapevole del fatto che questo avrebbe comportato il mio auto-isolamento volontario per 14 giorni, e che avrei lasciato una situazione di presunta libertà per una di “prigionia” assicurata. E non è stato facile prenotare un aereo con scalo a Monaco all’ultimo minuto, buttare mezza stanza in valigia in fretta e furia, andare a sentire l’odore del mare un’ultima volta seduta sulla solita panchina che, quella mattina, sapeva di una nostalgia che avrei provato solo successivamente, soltanto adesso.
Venerdì 13 marzo, ore 14
El Prat
Inizia così il viaggio della speranza. Sono da sola, mia cugina ha preferito prendere la nave anziché l’aereo, “almeno è sicuro che in Italia ci arriva”. Quindi il viaggio della speranza inizia con me che varco la soglia dell’aeroporto di Barcellona, ancora ignara del fatto che solo mezz’ora dopo Pedro Sanchez avrebbe dichiarato lo stato d’emergenza e la Catalogna avrebbe chiuso il proprio perimetro. Imbarco la valigia da stiva e, fatto il controllo di sicurezza, inizio ad aspettare il mio aereo per Monaco. La situazione, quindi, è questa: una ragazza di 22 anni con i capelli scuri, una borsa da palestra pesantissima e un ukulele in spalla, che vaga senza meta in un aeroporto mezzo vuoto. Tutto è stranamente tranquillo, e a me sinceramente sembra strano che sia andato tutto così liscio fino a quel momento. Fino a quel momento. Un’ora prima dell’aereo per Monaco che poi mi avrebbe portata su un aereo per Napoli, mi arriva un messaggio. Il mio volo per Napoli è stato cancellato. Panico. Dopo qualche ora, scopro che non è stato cancellato causa Covid-19 ma perché un uomo all’aeroporto bavarese aveva deciso di sfuggire ai controlli di sicurezza, causando così una marea di ritardi e cancellazioni. Vengo spostata ad un altro aereo per Napoli per il mattino seguente, per cui la compagnia mi offre una notte in albergo a Monaco. Ma devo prima arrivarci, a Monaco. La partenza viene posticipata di 30 minuti, in teoria. In pratica restiamo bloccati sull’aereo per due ore prima di decollare, perché uno degli operatori della compagnia era da poco risultato positivo al tampone.
Sabato 14 marzo, ore 00
Monaco, Germania
Non vi parlerò dello stress, della stanchezza fisica e mentale, dell’ansia. No. Vi menzionerò solo l’incredulità nell’essere arrivata in albergo dopo varie peripezie, incomprensioni e file interminabili. Guardo allo specchio i miei occhi stanchi e penso che, dopotutto, sono a metà.
Sabato 14 marzo, ore 14
Napoli
Dopo mesi rivedo mio padre, che mi viene a prendere in aeroporto. Gli sorrido forte, e forse sorride anche lui, ma la mascherina ci copre fino agli zigomi. Sin da subito seguiamo i protocolli di sicurezza. Restiamo a distanza, mi siedo sul sedile posteriore. Mi fa strano vedere mio padre dal finestrino retrovisore, con occhiali e mascherina, a proteggersi da quel potenziale covo di germi, batteri, e pandemia che sua figlia rappresenta in quel momento. Io stessa mi sento così. Una ragazza dai lunghi capelli scuri con guanti, mascherina e occhiali che fino a meno di 48 ore prima era al bar a bere con gli amici, come se quella mattina del 14 marzo fosse solo un fotogramma tratto da un film distopico; uno scenario post-apocalittico come l’intersecarsi delle strade di Napoli al momento dell’atterraggio, che avevo visto dal finestrino dell’aereo e di cui avevo percepito il silenzio anche dall’alto. Arrivata a casa, mia madre tratta me e i miei vestiti come rifiuti radioattivi. Ci metto un’ora prima di entrare in casa, dopo aver disinfettato persino le penne nel borsello, una per una. E così inizia la mia quarantena, un po’ più tardi di quella dei miei connazionali. Con 14 giorni di auto-isolamento (che per un’ipocondriaca come me non sono stati per niente facili), paranoia, e gratitudine.