Ci piace ripetere a noi stessi e agli altri- come le preghiere che abbiamo imparato al catechismo- che siamo persone trasparenti, che facciamo della sincerità il nostro baluardo e che ciò che sopportiamo meno al mondo sono le bugie e l’ipocrisia. Salvo poi mettere nel piatto animali, vegetali e prodotti industriali la cui provenienza è dubbia se non falsamente indicata. Se è vero che siamo quel che mangiamo, allora siamo tante cose di cui non conosciamo l’origine.
Mangiare: un’esigenza socio-culturale
Lontano anni luce dall’essere una predica, questa è solo una considerazione sull’enorme gap che esiste tra il controllo che crediamo di avere e quello che realmente abbiamo nelle nostre vite. A partire da ciò che ingeriamo e che per questo diventa parte di noi stessi. Tante volte quello che mettiamo nel piatto non è il frutto di un semplice bisogno fisiologico: spesso siamo condizionati da fattori psicologici, esigenze socio-culturali, bisogno di dare un’immagine che corrisponda a determinate aspettative.
Se da una parte i nostri nonni mangiavano le bucce di patate tirate fuori dai bidoni della spazzatura e campavano benissimo, dall’altra ci siamo noi che per quanta attenzione possiamo fare, siamo sempre un passo indietro all’ultima fregatura. L’utilizzo della tecnologia ha fatto sì che diventassimo sempre più informati e attenti a quello che mettiamo sulle nostre tavole. Eppure, rispetto ai nostri nonni siamo più fragili e continuiamo a non essere infallibili, soprattutto perché spesso ci lasciamo distrarre dalle pubblicità che ci calano una benda di fiducia sugli occhi e ci spingono tra le braccia dell’ignoto.
Gli italiani e la paura del falso nel piatto
Secondo una recente indagine di Coldiretti sul tema, molti italiani sono consapevoli dei rischi cui vanno incontro: difatti, ne viene fuori che il 65% degli intervistati teme le frodi e le contraffazioni alimentari. Ogni anno la contraffazione produce perdite nelle casse dei governi europei, di circa 15 miliardi di euro: dagli alcolici ai farmaci agli alimenti, si tratta, oltre che di un danno economico, anche un rischio per la salute. E durante la pandemia, indovinate un po’? Il rischio di fregarci sarà aumentato o diminuito? Assolutamente aumentato perché con le difficoltà economiche che affrontano le famiglie in questo periodo, il budget per la spesa si è ridotto e viene dirottato su prodotti a basso costo che spesso contengono ingredienti di minore qualità o di origine dubbia o sono trattati con metodi di produzione discutibili.
Ma cosa vuol dire contraffare un prodotto alimentare? Semplicemente spacciare per originale o con una qualità superiore di quella realmente posseduta, un prodotto con caratteristiche diverse o inferiori che possono essere anche nocive o illecite. La falsificazione può interessare la composizione dell’alimento che può essere alterata utilizzando elementi non controllati o di qualità inferiore, o può riguardare il marchio e l’indicazione di provenienza o della denominazione di origine.
Made in Italy e Italian Sounding
Sull’Italian Sounding sono fortissimi i produttori fuori dall’Italia che hanno fatto del fake Made in Italy un fenomeno economico di enorme portata. La loro maggiore abilità è quella di dare ai prodotti contraffatti un nome che sembri italiano, riproducendo niente più che dei falsi d’autore che nella migliore delle ipotesi sono solo blasfemi e disgustosi. Nella peggiore sono nocivi e letali.
Proprio i prodotti italiani sono quelli più imitati nel mondo. Tra i preferiti della frode alimentare ci sono vini, oli e formaggi, che sono poi quelli più rappresentativi della nostra eccellenza nel mondo. Dal vino adulterato con coloranti, metanolo ed addirittura antigelo ai formaggi arricchiti con margarina, colla vinilica e formaldeide per disinfettare e mascherare l’uso di latte scadente, la contraffazione dei prodotti italiani potrebbe mandarci rapidamente all’ospedale. Sempre se tutto va bene.
Il consumatore: tra ragione e sentimento
Le frodi e la contraffazione alimentare incidono sulla perdita di fiducia del consumatore che innesca così un meccanismo di collasso che, ad effetto domino, colpisce il produttore, l’operaio, il venditore: in sintesi, se crolla la fiducia del consumatore, crolla tutto l’impianto economico.
A tale scopo risulta utile al consumatore leggere l’etichetta che secondo il regolamento introdotto dall’UE nel 2011, impone le indicazioni fondamentali da fornire: quantità netta dell’alimento, data di scadenza, dichiarazione nutrizionale e condizioni particolari di conservazione e/o condizioni d’impiego, oltre che la denominazione d’origine. Ma saper leggere, tante volte non basta. Abbiamo bisogno di essere consumatori che sappiano usare ragione e sentimento. Magari puntare sul nostro basilare istinto di sopravvivenza e, come facevano i nostri nonni, fidarci dei nostri sensi: siamo ancora capaci, secondo quegli istinti primordiali, di individuare ciò che ci nutre positivamente?