Il festival di Sanremo si è ormai concluso da una settimana e anche quest’anno le nostre aspettative nell’ambito “polemica social” non sono state deluse.
L’anno scorso era stato Amadeus che proponendo alle donne di fare un passo indietro era tornato lui indietro di circa cinquanta anni. Quest’anno, insieme alle consuete accuse di blasfemia (amen), è stata Beatrice Venezi ad essere al centro della polemica per le parole da lei dette sul palco dell’Ariston. Cosa è successo?
Direttore o direttrice? È questo il problema
Venezi non vuole farsi chiamare direttrice d’orchestra ma direttore.
Lo ha sempre detto e ha deciso di riconfermarcelo in prima serata con il benestare di Amadeus che, lì accanto, sorrideva compiaciuto.
Per giustificare la sua scelta Venezi si è improvvisata linguista affermando che: “Le professioni hanno un nome preciso e nel mio caso è direttore d’orchestra”. È stato il punto di non ritorno.
Nei giorni ognuno sui social si è sentito in dovere di esprimere la sua opinione sui social. Tra post che criticavano Venezi e altri (provate a indovinare chi) che invece la elogiavano, ci troviamo costretti a dare ragione ai Maneskin, i vincitori di quest’anno: “Parla, la gente purtroppo parla. Non sa di che cosa parla”.
Errori di “lingua”
Ci sono due vie, tra loro complementari e necessarie, per affrontare la questione. Da una parte infatti se ne può parlare da un punto di vista linguistico, dall’altra, invece, possiamo concertarci sui risvolti sociali e politici (non indifferenti).
Volendo prendere in considerazione entrambe le strade, possiamo partire dalla prima. Linguisticamente le affermazioni fatte da Venezi in prima serata (e non al bar del paese) sono sbagliate. La lingua italiana prevede la possibilità di declinare, attraverso i suffissi e gli articoli, la professione a seconda di chi la esercita. Il femminile di direttore infatti esiste e a confermalo è il presidente della Crusca stesso che, commentando le parole di Venezi, ha indicato come opzioni direttrice o direttora. Se quindi le motivazioni indotte risultano scorrette, è necessario introdurre l’argomento all’interno di un discorso più ampio. E ciò avviene prendendo in considerazione anche la seconda possibilità di interpretazione.
Un(a) direttore
Per parlare di tale questione da un punto di vista politico/sociale dobbiamo partire da una realtà: Beatrice Venezi ha tutto il diritto di farsi chiamare direttore. Come infatti ha chiarito ancora il presidente della Crusca, il maschile è per la grammatica italiana “universale” dunque può essere usato anche da una donna (fosse il contrario staremmo già urlando al gender).
Detto questo però è naturale chiedersi il motivo per cui abbia fatto questa scelta. Posto infatti che da un punto di vista linguistico le sue motivazioni non reggono, possiamo provare a costruire un’ipotesi.
Per farlo possiamo partire dal contesto: Sanremo. Il festival dell’Ariston (con buona pace di Achille Lauro) è, e rimane, una trasmissione su Rai uno: nulla è lasciato al caso. Ogni battuta e frase fanno parte di un preciso copione e ingenuo sarebbe credere che la conversazione tra Beatrice Venezi e Amadeus non fosse stata decisa in precedenza. Ciò comporta la presenza di un preciso intento: far passare la riflessione circa la necessità di un linguaggio più inclusivo come futile perché puoi essere una donna e comunque essere direttore e non direttrice, dimostrando che tu ce l’hai fatta ad avere il loro stesso ruolo. Sei brava, proprio come un uomo ed è questo che Beatrice Venezi vuole dimostrare attraverso le sue parole.
A Sanremo, come in altre occasioni, infatti ha più volte sottolineato le difficoltà che ha incontrato nell’affermarsi nel mondo della musica in quanto donna. Ora è arrivata è vuole che ciò le venga riconosciuto attraverso un termine che se declinato al femminile è suo dire “ghettizzante e discriminante”. Come se l’essere chiamato “direttrice” indicasse che nonostante gli sforzi fatti tu non potrai mai ambire allo stesso ruolo che ricoprono gli uomini. Tu non sei un “direttore” come loro. Ed è proprio in questa visione che sta il principale problema di quanto avvenuto a Sanremo.
Un’intrinseca fallacia
Il ragionamento sottointeso da Venezi ha una fallacia: pretendendo di costruire parità, contribuisce a creare ulteriormente disparità.
Le parole costruiscono la realtà e l’assenza del termine femminile indica un’assenza del femminile in quell’ambito. Paradossalmente dunque ciò che è appare fatto per non “ghettizzarsi” è parte di quel meccanismo per cui le donne, solo se eccezionali e infallibili, posso sperare di conquistarsi un ruolo professionale che è maschile, perché per loro non è previsto. La presenza femminile rimarrà sempre eccezione, mai normalità.
Per questo rivendicare il diritto a farsi chiamare “direttore” rimane un diritto a livello personale ma non collabora a creare parità e pari opportunità. Una donna non potrà mai svolgere quel ruolo se non dovendo dimostrare sempre d’essere “brava come un uomo” e non “brava indipendente da ogni paragone”.
Conoscere per avere un’opinione
Ovviamente ciò non ci porta a gridare alla traditrice della parità di genere contro Beatrice Venezi. Utile piuttosto è una riflessione sul modo in cui certi temi vengono affrontati. Esiste spesso una superficialità sotterranea nel rapportarsi alla parità di genere: si crede di poter avere sempre un’opinione.
Sulla parità di genere non si può avere un’opinione si devono avere conoscenze e voglia di aprirsi al dialogo senza banalizzare tali argomenti e soprattutto senza sfruttarli a proprio piacimento.
Se infatti Venezi ci ha tenuto particolarmente a farsi chiamare “direttore” d’orchestra a Sanremo, non ha avuto invece problemi a farsi chiamare “direttrice” in un’intervista a un ben noto progetto editoriale, conosciuto soprattutto per lo sfruttamento dei concetti legati al femminismo a favore degli sponsor. Sponsor che in questo specifico video era Samsung.
L’uso e l’abuso di tali concetti è quindi evidente. Per questo servirebbe una maggior consapevolezza su di essi da chi può rivolgersi ad un pubblico così ampio.
Miriam Ballerini
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