L’essere umano è insieme razionalità e irrazionalità, e le passioni che lo coinvolgono costituiscono le manifestazioni di impulsi e reazioni a quanto gli accade. Gioia e dolore, euforia e malinconia, amore e odio, paura e coraggio sono alcuni dei binomi antitetici che caratterizzano la vita degli uomini.
Sono stati i Greci a introdurre, attraverso l’esperienza teatrale della tragedia, le forme nelle quali gli uomini esprimono i disagi, i turbamenti e le tensioni interiori che li scuotono. Sulla scena venivano così portate manifestazioni di violenza, di amore portato all’eccesso (anche contro le regole morali), tradimenti e vendette, a mostrare le pieghe più nascoste dell’animo umano.
Phobos e Deimos, le personificazioni della paura
Uno dei sentimenti più “oscuri” rappresentati fin dall’antichità è la paura. Questo sentimento ha radici antichissime e costituisce una delle emozioni fondamentali degli esseri viventi: ci mette in guardia dai pericoli e ci spinge alla sopravvivenza.
Gli antichi vedevano in essa una punizione degli dei, e i Greci avevano divinizzato i fratelli Phobos (paura) e Deimos (timore) per averli al proprio fianco in tempo di guerra. Esiodo narra che Phobos, figlio di Afrodite e di Ares, venisse invocato prima delle battaglie e avesse a Sparta un tempio dedicato. Phobos e Deimos accompagnavano sempre in battaglia loro padre Ares, dio della guerra. Sappiamo inoltre da Plutarco che persino Alessandro Magno, la notte precedente la battaglia di Gaugamela (331 a.C.), fece sacrifici in onore di questo dio (Vita di Alessandro, 31.4).
La sua influenza e il timore indotto erano tali che gli venne consacrata una pianta, l’acero rosso: nella mitologia greca questo era considerato l’albero della paura. Infatti si riteneva che il colore rosso acceso delle sue foglie nella stagione autunnale (che ricorda vagamente il colore del sangue) fosse in grado di risvegliare la divinità dal suo torpore.
I due lati della paura
L’istintiva paura di fronte al pericolo può portare a due comportamenti: il primo, geneticamente strutturato, porta a rifuggire il pericolo avvertito; il secondo comportamento, insito nella natura umana eppure indotto dalla presenza di osservatori esterni, porta ad evitare di incorrere in un mancato apprezzamento. Quest’ultimo può generare una paura che viene vissuta come più opprimente della stessa paura della morte.
Vari esempi li fa Omero nella sua Iliade: qui nessun guerriero, neppure quello più esperto, appare immune all’impulso della paura. Il guerriero possiede l’arte militare: questa gli è utile sia perché gli permette di fronteggiare il rischio con successo, sia perché gli fa percepire una determinata situazione come meno pericolosa rispetto ad un altro sprovvisto delle stesse abilità.
Il possesso della “tècne” guerriera, ad ogni modo, può solo ridurre il pericolo e non eliminarlo totalmente. Nel terzo libro dell’Iliade, Omero racconta lo scontro tra Alessandro Paride e Menelao per la contesa della bella Elena. Il primo, figlio del re di Troia Priamo, è presentato come “simile a un dio” e con sembianze minacciose.
All’aspetto bello e fiero non sembra però corrispondere l’effettiva presenza di quella perfezione interiore tipica dell’eroe omerico (kalòs kài agathòs, “bello e valoroso”, in cui coraggio e prestanza fisica risultano indissolubilmente legati): infatti, scorgendo il suo avversario Menelao nelle prime file dello schieramento, Alessandro viene colto da una fortissima paura e scappa tra i compagni per evitare l’avversario. Qui Omero, per spiegare in che modo si manifesta la paura di Alessandro, si serve di un’allegoria che la raffigura come vera e propria risposta fisiologica:
“Come uno, veduto un serpente, fa un balzo indietro fra gole di monti, il tremore gli prende le ginocchia e fugge e il pallore gli invade le guance; così di nuovo s’immerse tra la folla dei Teucri alteri, Alessandro sparì dentro la folla dei battaglieri Troiani, temendo il figlio di Atreo, Alessandro bello come un dio (Iliade, III. 34-37).
La vergogna come spinta motivazionale
Quel naturale istinto alla sopravvivenza che induce Paride a nascondersi rivela la sua incapacità di gestire la propria paura, e nulla può la sua tècne militare davanti all’inadeguatezza che prova. La paura del rivale, che spinge Alessandro a ritirarsi, viene tuttavia controbilanciata successivamente da un tipo diverso di paura: quella della morte sociale. È il guerriero troiano Ettore ad instillare in lui questa paura, traducibile nel senso di vergogna per la propria viltà, e a far sì che questo lo induca a cimentarsi in un duello con Menelao.
“Ma Ettore, vedendolo, lo assalì con parole oltraggiose: «Paride, sciagurato Paride, bello solo di aspetto! Sempre pazzo per le donne, vile seduttore! Oh, non fossi mai nato! o almeno dovevi morire senza nozze – sì, proprio questo vorrei, e sarebbe molto meglio – piuttosto che essere così una vergogna e tanto malvisto dagli altri. Ora, sono certo, esultano di gioia gli Achei: pensavano che tu fossi valoroso campione perché hai una bella presenza, e invece non c’è forza in te, non c’è energia” (III, 39-45).
Alessandro è consapevole della sua assenza di coraggio in una simile situazione. Ciò nonostante, è spronato ad agire in senso opposto alla paura della morte. Il senso di vergogna verso la propria comunità di appartenenza è concepibile come vero e proprio principio motivazionale, capace di spronare ad un agire improntato alla preservazione del proprio onore.
Non è un caso che, nell’incitare alla battaglia in una situazione di estremo pericolo, nel tredicesimo libro dell’Iliade (XIII, vv.121-122) il dio Poseidone dica allo schieramento Acheo “abbiate in cuore ciascuno la vergogna e l’onore”. Nel concetto di aidòs (vergogna) è insita la precarietà del senso di sé stessi e del proprio valore, ossia quell’immagine messa a repentaglio dalla prospettiva del disonore.
Anche gli eroi hanno paura
In assenza di una stabile disposizione alla gestione delle paure, l’essere umano mostra incertezze sul corretto corso d’azione da seguire. Come si è già osservato nel caso di Alessandro Paride, la decisione finale che ottiene il plauso dei troiani è frutto di un conflitto di paure, e non l’esito spontaneo di una stabile disposizione caratteriale.
In ogni caso, sembra che nemmeno i guerrieri autenticamente “eroici” siano immuni alle loro vulnerabilità. Gli eroi omerici pensano che l’uomo autenticamente virtuoso sia pienamente capace di resistere alle paure. Si pensi ad esempio a Odisseo, il quale, rimasto solo dopo che il resto degli Achei erano fuggiti per la paura, turbato parlava così tra sé e sé:
«Ahimè, cosa mi capita? Un grosso guaio, se scappo per paura della folla. Ma sarà ancor peggio qui, se mi faccio cogliere da solo: gli altri Danai (gli Achei, lo schieramento greco, ndr) li ha messi in rotta il Cronide (Zeus, ndr). Oh, perché mi lascio andare a questi pensieri? Lo so bene che son i vigliacchi ad allontanarsi dal campo: ma chi è prode in battaglia, ha il dovere di resistere con energia, sia che ferisca sia che rimanga ferito» (Iliade XI, 401-410).
Ad una simile consapevolezza, tuttavia, non sempre si accompagna la presenza di una stabile inclinazione all’agire coraggioso. Il resto del poema mostra infatti che anche i più vigorosi eroi sono esposti alle seduzioni della paura. Infatti, nel verso 136 del XXII libro Ettore, destinato allo scontro con Achille, cede alla paura alla sola vista dell’avversario esattamente come aveva fatto il fratello Paride davanti a Menelao:
“Ettore allora, solo a vederlo, venne preso dal panico; non ebbe più la forza di restare lì fermo, ma si lasciò la porta alle spalle e fuggì via” (Iliade XXII, 136 – 137)
Più tardi però Ettore, rivolgendosi ad Achille, rivendica la propria volontà di resistere, senza omettere le sue precedenti manchevolezze:
“Non scapperò più, o figlio di Peleo, davanti a te come ho fatto prima, che son corso tre volte intorno alla città e non ho avuto il coraggio di aspettar il tuo assalto. Ora invece sono qui deciso a starti di fronte” (XXII, 250-252).
Omero porta sulla scena la paura e la debolezza dell’uomo. Non risparmia nemmeno i guerrieri più valorosi, che per il pensiero comune dovrebbero esserne immuni. Il suo obiettivo è quello portare allo scoperto il lato umano di coloro che sono ritenuti invincibili. Nell’Iliade, mostrando tutte le debolezze umane, Omero veicola un messaggio molto potente: non è sbagliato avere paura.
LEGGI ANCHE – Il fascino fatale dell’essenza e della perdita: “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese
Ti sei perso il Cronache di un Borderlain di questo mese? Clicca qui