Questa pandemia, quanta vita ci ha sottratto?
Rappresentati fino allo stremo nella poesia, nei romanzi, dai quotidiani: l’arte li raffigura dipinti, fotografati, scolpiti, nella vita invece sono gesti reali, condivisi, rassicuranti. Parliamo degli abbracci. In tempo di isolamento, per evitare contagi, li evitiamo e terminiamo i nostri messaggi, lettere e telefonate inviando abbracci virtuali, ma quelli reali, negati dalla distanza posta tra noi e gli altri, ci mancano. Persino coloro che non li hanno mai amati sono finiti per rimpiangerli.
Per via della pandemia, possiamo dire di esserci quasi abituati a questa fastidiosa imposizione, al divieto di abbracciarsi. I Coma_Cose, coppia nell’arte e nella vita, hanno portato questo tema sul palco dell’Ariston, dando voce a tutti coloro che si sentono come una Venere di Milo: una donna senza braccia che prova (invano) ad abbracciare l’uomo che ama e ci riprova mille volte, perché per una volta vorrebbe sentire il calore di due corpi avvinghiati; nel contempo però, hanno descritto il grido dell’intera popolazione di questo periodo pandemico.
«Ahi, madre, diss’io, perché mi sfuggi?» L’abbraccio impossibile di Odisseo
Quello dell’abbraccio mancato, o meglio impossibile, è un tòpos molto ricorrente nell’antichità: in un momento come quello che stiamo vivendo, quasi sorprende ricordare quanta sofferenza procurasse un mancato abbraccio già ai tempi di Omero. Nel libro XI dell’ Odissea, Omero racconta come Odisseo, seguendo il consiglio della maga Circe, scenda nell’Erebo per interrogare Tiresia su quale destino lo aspetti e su quando potrà tornare alla sua Itaca. Nell’Erebo, luogo non luogo meglio identificabile come il regno di Ade, riposano o vagano i morti (infatti non è mai ben definito il fatto se lì sotto ci si riposi o si vaghi, come in una condanna di Sisifo).
Si tratta di uno dei libri più belli (soprattutto dal punto di vista emozionale) e struggenti di tutta l’Odissea. L’atmosfera è cupa, l’Erebo si trova ai confini del mondo conosciuto, contraddistinto dal buio e dalla nebbia: Odisseo ci dice che su quel popolo “i raggi del sole non discendono mai”, gli abitanti di quei luoghi sono eternamente avvolti nell’oscurità. Vagando tra le anime dei defunti, compie il rito dei morti e sacrifica vittime animali; bevendo quel sangue, le anime dei defunti riacquistano per qualche momento vitalità e parola. A quel punto Odisseo fa un incontro inaspettato: tra le anime gli si avvicina Anticlea, sua madre, di cui egli ignorava la morte. Odisseo le chiede quale doloroso destino o malattia l’abbia privata della vita ed ella risponde: «a privarmi della dolce vita sono stati il rimpianto, il pensiero, l’amore per te». Mentre lei parla l’eroe vorrebbe abbracciarla, ma per ben tre volte che tenta di farlo, le braccia gli ritornano vuote al petto.
Questo mi disse; ma io, agitato nel cuore, stringere l’ombra turbata bramai di mia madre morta; tre volte all’immagine tesi le braccia, e tre volte alle braccia sfuggiva, figura di sogno.
Tanto sentivo più forte il dolore nell’animo e alla madre parlai con alate parole: «Ahi, madre, diss’io, perché mi sfuggi, sebbene io brami di stringerti a me, così che anche nell’Ade abbracciati possiamo di questo triste gemente colloquio godere?»
(Omero, Odissea, libro XI, vv. 204-212 nella traduzione di Enzio Cetrangolo)
Come si abbracciano le ombre? Il triplice abbraccio e l’innovazione di Dante
A riprendere il tòpos dell’abbraccio impossibile tentato tre volte saranno in molti: Omero stesso utilizza quest’immagine nell’Iliade, nell’incontro tra Achille e Patroclo; lo riprenderà nella sua Eneide Virgilio, narrando l’incontro tra Enea e il padre Anchise. Lo stesso tòpos del triplice abbraccio, appunto impossibile, verrà ripreso anche da Torquato Tasso e dal sommo poeta Dante Alighieri nella sua Commedia, al momento dell’incontro con l’amico Casella.
Sono tutti tentativi falliti: le ombre non si possono abbracciare e la loro stessa presenza in forma di imago testimonia lo spazio incolmabile di una distanza. Eppure il “fallimento” dell’abbraccio di Dante si connota di un segno opposto rispetto ai suoi precedenti pagani: al “largo pianto” di Enea corrispondono in Dante “maraviglia” e “sorriso”; l’ombra non fugge ma, ritraendosi, invita a seguirla. Tutt’altro che imago o sogno o vento, Casella è un’anima salva: più che un bene sottratto all’affetto tra i due amici, il loro abbraccio mancato è occasione di riconoscimento (“allor conobbi chi era”).
Ovidio e Seneca: rimpiangere un abbraccio nel ricordo
Ovidio nelle Heroides (lettere di eroine ai loro amanti perduti o lontani) immagina il dolore di una donna del mito, Arianna, abbandonata sulla riva del mare da Teseo. Al risveglio non lo trova più accanto a lei, vorrebbe abbracciarlo, stringerlo, ma invano. Così scrive all’amato:
«Le parole che leggi t’invio, o Teseo, da quel lido donde le vele portano lontano senza me la tua nave; purtroppo a tradirmi è stato il mio sonno e tu, scellerato, ne hai approfittato per partire lasciandomi sola. Era l’ora in cui la terra è spruzzata da cristallina brina e nascosti tra le fronde si lamentano gli uccelli; non ancora ben desta nel languore lasciato dal sonno, allungo le mani credendo di abbracciarti, stringerti a me: non ci sei…atterrita mi alzo, mi batto il petto, mi strappo la chioma già scomposta dal sonno».
Sogna gli abbracci del figlio anche la madre di Seneca mandato in esilio dall’imperatore Claudio. Disperata, non riesce a trovare conforto dopo questo allontanamento. Il figlio vorrebbe consolarla, scrive dall’esilio un’operetta dal titolo Consolatio ad matrem Elviam, dove riporta i pensieri dolorosi della madre che lui non potrà mai tranquillizzare.
«Eccomi, dunque, priva dell’abbraccio del mio carissimo figlio! Non posso godere più della sua vista, né della sua conversazione! Dov’è colui alla cui presenza il mio volto si rasserenava e nel quale io deponevo tutti i miei affanni?
Dove le nostre conversazioni di cui io ero insaziabile? Dove i suoi studi ai quali partecipavo più volentieri di qualunque donna e più familiarmente di qualunque madre? Dove i nostri incontri? Dove quella sua gaiezza infantile alla vista della madre?»