Un padre, un figlio si trovano davanti a uno specchio.
Nessun tocco tra i due, il braccio dell’uno cade a poca distanza da quello dell’altro.
Il padre dice «Com’è andata la tua giornata?».
Il figlio pensa dita così vicine, non ho memoria del tuo tocco.
Il figlio risponde «Bene, grazie».
Un padre, un figlio si trovano davanti a uno specchio.
Nessuno tocco tra i due, occhi così simili che ci si potrebbe confondere.
Il figlio dice «Com’è andata a lavoro?».
Il padre pensa ho avuto sogni deboli.
Il padre risponde «Bene, grazie».
Il riflesso del padre, quello del figlio si trovano dentro a uno specchio.
Il braccio dell’uno si confonde con quello dell’altro.
Il riflesso del padre dice «Da piccolo amavi il verde. Una volta spesi un’intera giornata a cercare un cucchiaio di quel colore, solo per farti mangiare con più piacere».
Il riflesso del figlio non pensa nulla, perché è un riflesso.
Il riflesso del figlio risponde «Da piccolo indossai di nascosto la camicia che usavi per il lavoro. La mamma mi sgridò perché te l’avevo sgualcita».
Il riflesso del padre, quello del figlio si trovano dentro a uno specchio.
Occhi così simili che fa quasi male.
Il riflesso del figlio dice «Il sabato, quando non lavoravi, era un bel giorno».
Il riflesso del padre non pensa nulla, perché non sa cosa pensare.
Il riflesso del padre risponde «Il sabato, quando non lavoravo, era un bel giorno. Ma di tutti i giorni trascorsi a casa, non ho goduto che della mia solitudine».
Un padre, un figlio guardano i propri riflessi nello specchio.
Il padre guarda il suo riflesso e pensa non mi hanno mai raccontato la favola della buonanotte.
Il figlio guarda il suo riflesso e pensa speravo che tra tutti i mostri che non mi hai insegnato a combattere, papà, l’unico vero fosse quello sotto al letto.
Un padre, un figlio si guardano negli occhi.
Il padre guarda il figlio e si riconosce nelle guance rosse, traccia di un imbarazzo che li rende simili e colpevoli.
Il figlio guarda il padre e si riconosce nelle spalle larghe ma fragili, di chi teme la vergogna più del fallimento.
Un padre, un figlio chiudono gli occhi.
«È tardi per giocare ad abbracciarci, stringiamoci la mano», dice uno dei due.
«È tardi per giocare a perdonarci, non guardiamoci negli occhi», risponde l’altro.
Si guardano allo specchio.
L’uno guarda l’altro e s’interroga
su ciò che sarebbe potuto essere stato
se non fosse per uno specchio
che ha reso,
loro stessi,
nient’altro che un riflesso.
Il braccio dell’uno cade a poca distanza da quello dell’altro.
Non sembrano una cosa sola, ma si sfiorano, con occhi distratti.
Forse è questo il perdono
di voci mute
e di occhi miopi.
Giocano a far la pace.
Giocano a fare il padre e il figlio.
Ed è un gioco di emozioni controllate.
Giuseppe De Filippis
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