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Politica

3 nodi che il coronavirus ha definitivamente portato al pettine della politica italiana

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Sarebbe bello dirvi che la foto in copertina è creata apposta per evitare il copyright, ma non posso. E non è possibile nemmeno sperare che esistano pochi cartelli come questo affissi al futuro di migliaia di artigiani, negozianti e partite iva oggi in difficoltà per colpa del coronavirus in Italia. Ma, pensandoci un attimo, è davvero tutta colpa sua?

La verità è che se il coronavirus è oggettivamente la causa primaria della morte sanitaria, è vero anche che è stato il colpo di grazia per l’imprenditorialità italiana. Non bastava l’essere già devastata da decennali mal governi: ci voleva anche l’acuirsi di decisioni passive in ambito lavorativo di cui, stiamo tranquilli, vedremo i frutti marci tra non molto.

Si sa, esistono grandi differenze economiche, politiche e culturali tra gli Stati mediterranei (dediti all’interventismo statale e agli ammortizzatori sociali anche post mortem se vi pare) e i neoliberisti anglosassoni promotori del self-made-man (per cui se non hai l’assicurazione sanitaria, puoi tranquillamente morire male di coronavirus). Ma così, per dire, non possiamo trovare una via di mezzo? Proviamo a guardare oltre il confine del nostro mezzo metro quadro di orto?

 

1) Finché l’assistenzialismo va, tu lascialo andare

Assegno di disoccupazione, reddito di cittadinanza e di emergenza, cassa integrazione & Co. Non si può dire che lo Stato lasci allo scoperto i suoi lavoratori in difficoltà. Ma a che prezzo? Quello del debito pubblico. Indebitarsi per aiutare i propri cittadini è un’azione più che legittima, ma scialacquare soldi è un comportamento da scellerati. Perché? Tralasciando la parte politica che ha emanato quella determinata legge (e pure la soggettiva simpatia/antipatia per le medesime), analizziamo le conseguenze oggettive di lungo periodo.

Le azioni passive generano altrettante azioni passive, con l’aggravante che non producono valore aggiunto, se non in minima parte. Facendo un esempio pratico: lo Stato che aiuta Paolo ad arrivare alla fine del mese, non lo rende parte integrante di un’economia circolare. Infatti, una volta che Paolo utilizzerà giustamente tutti i soldi per pagare spesa, affitto e bollette non ne avrà più (o quasi) per la colazione al bar, comprare scarpe nuove, cenare fuori. Non azioni da nababbi, ma gesti che permettono al barista, alla commessa e al cameriere di compiere a loro volta questi gesti.

Mi piacerebbe tanto, poi, pensare che l’appello all’articolo 1 della nostra Costituzione non si assopisca, bensì esista e si rinnovi a prescindere dall’animo umano fancazzista per natura. Tuttavia, mi sono dovuta ricredere dopo aver assistito alla seguente telefonata:

– “Buongiorno, sono X dell’azienda Y. Stiamo cercando un impiegato/a in ufficio a Torino, orario 9-18, contratto apprendistato 3 anni.

– “Sì buongiorno, io sono disponibile. Però prima di fare il colloquio per correttezza, vorrei chiedere lo stipendio, perché sa… se prendo meno della disoccupazione non ne vale pena”.

(Per la cronaca: stavo cercando io il fortunato/candidato.)

Certo, non possiamo fare di tutta l’erba un fascio, soprattutto perché il tasso di povertà in Italia è molto (troppo) elevato. Ma una domanda è legittima. Tolte le persone che hanno davvero bisogno di queste forme di sussistenza, a quanto ammonta il tasso di concretezza dell’aiuto per tutte le altre? E chi se ne è approfittato sta pagando le conseguenze? E a prescindere dall’aspetto economico (fondamentale), prendiamo in considerazione anche l’aspetto sociale, anch’esso circolare. Il lavoro rende indipendenti e l’indipendenza crea altro lavoro, relazioni, idee, progresso. Una società attiva che non implode su se stessa, ma che si costruisce autonomamente.

Lo Stato deve essere un sostegno proattivo verso le aziende, non sempre e solo passivo verso le persone. Perché non sempre l’aiuto economico più veloce e sicuro è anche il più immediato e stabile. Cosa succederà allo Stato italiano quando finirà i soldi? O quando lo Stato ritarda come in questa pandemia… Ricordiamoci che non si muore solo di Coronavirus, ma anche di fame. E che non si vive di solo assistenzialismo.

 

2) Cassa integrazione fantastica e dove trovarla

L’iceberg che sta facendo affondare la fiducia nel Governo Conte ha già dato fuoco a diversi milioni di euro nel corso del tempo. Di per sé la cassa integrazione è il paracadute perfetto per un’azienda che sta per fallire o è in forte crisi di liquidità perché permette ai suoi lavoratori di non rimanere a casa senza stipendio dalla sera alla mattina. Ma cosa succede quando l’azienda utilizza l’aiuto dello Stato per tamponare non alla fine, ma durante l’intera attività lavorativa? È il caso del lavoro a commesse.

Purtroppo, le commesse non sono come i diamanti: non solo non durano per sempre, ma hanno anche il cattivo difetto di non arrivare una dopo l’altra cronologicamente parlando. La commessa c’è o non c’è e, a volte, si perde pure per averla messa in attesa. Si innesca qui l’aiuto statale che mantiene l’azienda per il periodo tra la commessa 1 e la commessa 2. Il sistema va avanti da decenni e siamo tutti d’accordo che, anche per questo discorso, non si può fare di tutta l’erba un fascio.

Ma la domanda è sempre quella: se non dipende in toto dallo Stato l’arrivo o meno della commessa, perché deve pagare lui (in tutti i sensi) per l’azienda? Perché non creare un fondo interno, ove possibile, da cui attingere per permettere di non gravare sul debito pubblico? Perché, dove si può, non riorganizzare la catena di montaggio e turnare i lavoratori formati per essere polifunzionali? “Ma figurati, aumenterebbero i costi” è quello che mi ha risposto il mio tutor di tirocinio nell’azienda che costruiva impianti Oil&gas. E di nuovo, come di sopra, buona pace per l’indipendenza del sistema aziendale (e dunque sociale) a cui non resta che implodere.

Ed eccoci arrivati alla crisi da Coronavirus: una bomba da circa 8 milioni di cassa integrati, un buco da altrettanti miliardi per lo Stato, un ritardo di tre mesi e una crisi di liquidità per le persone comuni che manco durante il 2008. E qui di nuovo, come un disco rotto. La cassa integra una parte di denaro nella vita del lavoratore in difficoltà, ma non riesce a re-integrare il suo ruolo nella società per diverse conseguenze, tra cui la più grave: il lavoro nero. Perché chi vive di nero non può vedere la luce del giorno.

 

3) L’insostenibile leggerezza della garanzia dello Stato

Avevo già accennato qui la buona volontà dello Stato nel poter far accedere le aziende ai finanziamenti e la possibilità delle banche di dribblare l’inconveniente “altro debito”. Ciò che davvero non ci si capacita è che chi siede nell’Olimpo dell’esecutivo non ha assolutamente idee di cosa succeda ai comuni mortali. È, infatti, difficile credere che chi ha la pancia piena possa anche solo provare il buco allo stomaco che viene quando ti bloccano il lavoro per tre mesi, quando ti negano un prestito, quando devi chiudere la serranda, quando non bastano 600 euro a pagare le spese.

Che garanzie ha chi appende cartelli come quelli in foto per colpa del Coronavirus? E chi nelle periferie accetta il pacco delle mafie, che contropacco e paccotto sta realmente accettando? E se ne rende conto delle conseguenze nel lungo periodo? Anche se il Governo giura e spergiura sul suo impegno costante in questi mesi di lockdown, come sempre gli ingranaggi della burocrazia hanno fregato tutto e tutti. Forse non hanno poi così torto nel Nord Europa a non voler considerare i problemi di quei Paesi che non hanno il polso della loro situazione economico-sociale.

Per troppo tempo il sistema lavoro non è stato nutrito, ma dilapidato. Praticamente, è da quando esiste la Repubblica che la pancia dell’elettorato va in qualche modo riempita ed è così che le azioni passive sono all’ordine del giorno, dimenticando il quotidiano di milioni di persone che ogni mattina si alzano e lavorano per produrre qualcosa. Un prodotto, un servizio, un obiettivo, un sogno.

Ed è durante il coronavirus, magari dopo anni di sacrifici, quando lo Stato ti dimentica, che purtroppo ti chiedi al confine tra la rabbia e lo sconforto:

“Devo lavorare per vivere o vivere per lavorare?” 

Carlotta Cuppini

 

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Carlotta Cuppini
Fondatrice di Borderlain, le piace organizzare persone e progetti con sorridente serietà. Based un po' in MIlan un po' Bologna, beve caffè amaro al mattino e vino rosso la sera. Colleziona edizioni di 'JF è uscito dal gruppo' che tiene sul comodino insieme a manuali di project management.