Quanto accaduto a Capaci il 23 maggio del ’92 fa parte, com’è tristemente noto, di uno dei capitoli più oscuri della storia italiana. 28 anni fa si consumava il sacrificio del giudice Giovanni Falcone, della moglie Francesca Morvillo e degli agenti della loro scorta.
Un intero pezzo dell’autostrada A29 saltò in aria. Ad aspettare il corteo, presso lo svincolo autostradale di Capaci, c’erano tonnellate di tritolo, fatte esplodere al momento del transito. Erano anni durissimi, per la Sicilia e per lo Stato italiano.
Giovanni Falcone era – e lo è ancora – il simbolo della lotta alla mafia. Al tempo dei fatti che oggi commemoriamo, da oltre un decennio dedicava tutta la sua vita, professionale e non, alla lotta alla criminalità organizzata siciliana, Cosa Nostra. Lo animava la profonda convinzione che quel mostro che stava divorando la sua terra non fosse indistruttibile; che fosse un fenomeno come altri, un fenomeno umano e, in quanto tale, destinato a finire.
Il pool antimafia
Agli inizi degli anni ’80, infatti, nasceva il pool antimafia presso la procura di Palermo: un gruppo coordinato di magistrati che si occupasse esclusivamente di indagare circa l’associazionismo di stampo mafioso. Il fine era quello di dare unità e completezza alle indagini che i singoli giudici portavano avanti, oltre che proteggerli dagli attacchi violenti che già la magistratura aveva subìto. L’ideatore fu l’allora capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Rocco Chinnici. Nel pool emersero i metodi di due giovani Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Falcone, in particolare, intuì che, per arrivare a disegnare una mappa degli interessi mafiosi, bisognasse tracciare quelli che erano i maggiori flussi di denaro che si smuovevano nella Sicilia dell’epoca. Il progetto funzionò e i risultati non tardarono ad arrivare.
Dopo il brutale assassinio di Chinnici, nel luglio dell’ ’83, teso ad intimidire i magistrati dell’antimafia, gli succedette Antonino Caponnetto. Egli diede fiducia ai metodi di Falcone e Borsellino e le indagini iniziarono a delineare un quadro sempre più organico di delitti che, fino ad allora, sembravano isolati tra loro. La vera svolta, tuttavia, si ebbe quando, l’anno seguente, Tommaso Buscetta decise di collaborare con la giustizia; e collaborò a una condizione: voleva parlare con Giovanni Falcone. Così ebbe inizio il fenomeno del cosiddetto pentitismo. Il pool istruì il più grande processo alla mafia mai visto in Italia.
Il maxiprocesso
Il primo grado si celebrò nell’aula-bunker appositamente costruita nel carcere dell’Ucciardone a Palermo. Ebbe inizio il 10 febbraio del 1986 e terminò, a distanza di quasi 2 anni, l’11 novembre 1987; produsse una sentenza di dimensioni mastodontiche, per il valore che esprimeva nella lotta alla Cosa Nostra: 346 condannati, 19 ergastoli e un totale di 2665 anni di reclusione.
La sentenza, nonostante dovesse affrontare altri due gradi di giudizio, venne accolta come una vittoria, e in effetti lo era. Una vittoria del pool e dei suoi innovativi metodi investigativi; il quale, però, si avviava – non sapendolo – al capolinea. Caponnetto era a fine carriera e, per l’anzianità, il lavoro fatto negli ultimi anni lo aveva provato: era tempo di lasciare Palermo.
Era il 1988 e Falcone si candidò a succedergli, appoggiato dai magistrati del Tribunale e dallo stesso capo ufficio uscente. Il CSM, tuttavia, gli preferì inspiegabilmente Antonino Meli. Questi, di fatto, smantellò il pool antimafia, segnando il ritorno ai precedenti metodi di indagine superati e inefficaci. Finiva, in quel modo, la più determinata e coraggiosa parentesi della lotta alla criminalità organizzata mai tentata (e riuscita) da uomini dello Stato.
Vite spezzate
Quanto detto fin’ora è, ormai, parte della storia italiana. Vi sono dedicati interi volumi, oltre che film, documentari, serie tv; e non potrebbe essere altrimenti.
Da questo momento in poi, tuttavia, le vite professionali e non, di Falcone e Borsellino divennero sempre più difficili. Smembrato il pool, le loro carriere dovettero subire accuse, gogne, invidie, fuoco amico. Di fatto, i membri della squadra il cui lavoro portò al maxiprocesso vennero divisi e isolati. Nel merito servirebbe una cronaca e un’analisi (come anche per le fasi trattate sopra, d’altronde) molto più approfondita e capillare di quella che si può affrontare nello spazio di un articolo.
Sui fatti che portarono alla distruzione delle figure professionali e umane dei due magistrati, infatti, non si è mai fatta abbastanza chiarezza da poter definire e attribuire le reali responsabilità. Sembra un dato di fatto, però, che lo stato di isolamento e conseguente vulnerabilità, al quale furono costretti dagli organi competenti, abbia concorso, in maniera non indifferente, alla realizzazione dei tragici eventi che oggi commemoriamo; e della strage di via d’Amelio, il seguente 19 luglio, quando a perdere la vita fu, oltre a cinque agenti della sua scorta, Paolo Borsellino.
Vale la pena, a questo proposito, ascoltarne le parole, che certo possono darci un’idea di quello che successe realmente, dal punto di vista di chi quella guerra l’ha combattuta a sue spese.
La speranza
Il 1992 fu un anno funesto per tutti coloro che si schierarono dalla parte di chi la mafia la voleva combattere realmente. Ed è per questo che oggi commemoriamo, come si deve nelle società democratiche ove i diritti umani fungono da pilastro, il sacrificio degli Uomini dello Stato.
Il sacrificio di due servitori dello Stato, in particolare, immolatisi per una causa, ben consapevoli di cosa li avrebbe attesi. Per senso del dovere e di responsabilità; per amore. Perché fermamente convinti che solo in questo modo si potessero smuovere le coscienze; che solo creando un movimento sociale e politico, prima che giudiziario, si potesse veramente mettere fine alla vergognosa e atroce barbarie che ancora oggi chiamiamo mafia.
Non ancora avverata
Nei giorni scorsi si è molto parlato di Giustizia. Ne hanno parlato i giornali, la classe politica, se ne è discusso in Parlamento. Se ne è messa in discussione la gestione ministeriale; vuoi per ragione, vuoi per questione di elettorato. Ad ogni modo è innegabile che l’amministrazione delle carceri (e non solo) durante la pandemia in corso sia stata molto più che discutibile.
Si è accennato, in Parlamento, anche di mafia, di criminalità organizzata; strano, ma vero. Strano perché in Italia non si affronta il problema in maniera decisa; si tira fuori all’occorrenza qualche slogan da coscienza pulita e raramente in campagna elettorale. Segno inequivocabile che quel movimento sociale, auspicato dai magistrati del pool, sia ben lontano. La lotta è lasciata alle associazioni e ai singoli che hanno il coraggio di schierarsi contro la mentalità deviata del pensare mafioso.
Un pensare che sembra sempre più radicato e inevitabile nella (sotto)cultura popolare, della quale saggiamo la pochezza ormai quotidianamente. Solo un anno fa si parlava, al Governo, di revocare la scorta ad alcuni collaboratori di giustizia. Si parlava di rivendere a privati, al miglior offerente, i beni confiscati alle attività illecite. Si parlava (?) di mettere in discussione – come poi è stato fatto – due delle più grandi conquiste normative e civili della lotta all’associazionismo di stampo mafioso. Ma perché?
Probabilmente, ora come allora, non abbiamo ancora ben imparato – o forse non vogliamo realmente – a valorizzare l’onestà e i suoi uomini. A combattere le loro battaglie.