E se fosse stato tutto un sogno? Un lungo sogno, di quelli che sembrano reali.
Non sappiamo neppure dove tutto sia iniziato, c’eravamo già dentro e lo abbiamo vissuto. I giorni che scorrono, le certezze che mutano, assolute verità che dopo sole poche ore o giorni non sembrano più così categoriche. Nel mio sogno, il mondo della ristorazione era al massimo della Eco Mediatica. Ogni cambio menù un grandissimo evento, in ogni canale della Tv c’erano documentari sul cibo, cuochi e ristoratori che si sfidano, addirittura dei reality show sulla cucina. Ci credereste? Anche più clamoroso dei diciannove interventi al giorno di Mentana sul Coronavirus.
Ad un certo punto mi rendo conto che questo è solo un sogno, che non può essere reale. Nel mio sogno infatti, ogni giorno aprivano nuovi locali e ancora e ancora. I centri storici delle città si trasformavano in enormi mense per turisti e tra persone di tutte le età ed estrazioni sociali scattava questo innaturale impulso di castrare le proprie vite per lavorare a tutti i costi in una cucina per quattordici ore al giorno in cambio di quattro spicci, una diagnosi di depressione pressoché certa e l’attestato di eccellenza di Trip Advisor. In questo sogno, che più che un sogno pare un incubo, si finiva per mangiare tra il male ed il malino in moltissimi posti. Proprio non mi capacito di come alcuni di questi locali fossero pienissimi, nonostante il piatto riempito di merda fumante.
Un colpo di tosse, qualche linea di febbre e il risveglio.
Il Coronavirus, o Covid-19. In pochissimi giorni si passa dal vedere il problema come qualcosa di lontanissimo, alle prime timide restrizioni, fino alla definitiva chiusura totale. Sopravvivono i ristoranti take away, quelli che già c’erano ed altri che si sono riconvertiti per sopravvivere. Ma l’intero sistema è già compromesso perché se accettiamo di colpo che il presente e il futuro siano in gran parte legati al cibo da asporto, allora gli ultimi 50 anni di ristorazione mondiale possono davvero venir considerati come un sogno dal quale ci siamo svegliati. Magari tutti sudati, urlando e piangendo.
E adesso, cosa succede? O meglio, e dopo? Sinceramente non lo so. Troppe variabili impediscono una corretta previsione di quello che sarà dopo. Chiunque ne abbia scritto in queste settimane non ha fatto altro che stare sul vago o affermare cose scontate del tipo “chi era già in difficoltà prima probabilmente non riuscirà ad aprire il locale”. Grazie al cazzo.
Qualcosa però possiamo dirla con certezza.
Questa pandemia ha messo a nudo tutta la fragilità e le contraddizioni di un sistema, quello della ristorazione, che pensava di poter espandersi all’infinito. Di poter spremere qualsiasi fascia oraria e festività pagana o meno e di farlo con l’illusione che la torta sia abbastanza grande per tutti. Ma sono bastate tre settimane di quarantena e chiusure in tutta Italia ed in gran parte della sfera terrestre (articolo aggiornato al 10/04 n.d.r.) per rendersi conto di come queste fondamenta fossero di sabbia.
Già alcuni nomi importanti della ristorazione come David Chang e Gordon Ramsey hanno chiuso tutti i locali (probabilmente non tutti solo momentaneamente) e lasciato a casa 500 dipendenti circa a testa. In Italia invece la cassa integrazione in deroga dovrebbe almeno permettere di mantenere quanti più posti di lavoro possibili in attesa della fine delle restrizioni. Qui però inizia la prima considerazione. Le fiere sono tutte chiuse e probabilmente voli in entrata e in uscita dagli altri stati saranno chiusi per tutta la primavera e parte dell’estate, dunque che ne sarà di tutti quei locali che lavorano e fanno affidamento esclusivamente sul turismo, a maggior ragione quello internazionale?
È stato detto più e più volte che un certo tipo di ristorazione, quella stellata o vagamente tale, è economicamente un buco nell’acqua.
Pochi coperti, tantissimo personale (parte del quale sottopagato o addirittura non pagato), ritmi impossibili e pressione altissima, costo della materia prima elevatissimo. Molti di questi ristoranti sono delle vere e proprie zavorre che vengono sostenute da attività complementari come hotel, secondi o terzi ristoranti per tasche meno profonde e con gli eventi legati al nome dello Chef di turno.
Alcuni nomi sono l’essenza stessa del concetto di altissima cucina come Bottura, Humn, Redzepi e Roca e presumibilmente riprenderanno da dove hanno lasciato. Ma c’è un sottobosco di ristoranti di fascia medio-alta e alta che questa forza e questa volontà potrebbero non averla più. Pasquale Torrente, col suo “Convento”, potrebbe essere uno di questi con la sua idea di “decrescere per crescere”. Una cucina più semplice e immediata, menù a costi più contenuti e ritmi meno frenetici.
C’è infine una massa informe e variegata, che è la maggioranza.
Ristorantini, trattorie, conduzioni famigliari, osterie e gente che più o meno ci prova. Saranno, sopratutto gli ultimi, vittime di chi con le spalle più grosse andrà a rastrellare occasioni per allargare a prezzi di saldo il proprio business. Gli altri rimetteranno insieme i cocci, magari aiutandosi con un prestito al 2% da ripagare in 7 anni, chiedendosi se ne sia valsa la pena di mettere in piedi tutto questo per ricominciare peggio che daccapo alla prima vera crisi, disperati già alla terza settimana di chiusura e ben lontani dall’uscire dal tunnel. Con tutta la proverbiale merda che viene a galla.
Facciamo un esempio tanto per essere chiari. Se ad un dipendente corrispondi uno stipendio da 1500 con un contratto regolare, finisce che fra tasse, tredicesima e quattordicesima quel dipendente ti costa letteralmente il doppio. Quindi facciamo che gli dai 1000 puliti ed altri 500 in comode banconote da 50, tutto alle spalle di quello strozzino dello Stato Italiano. Tutti felici. Ora però la cassa integrazione paga l’80% della paga intera, quella “pulita”. C’è un’altra parte da riconoscere, magari in maniera proporzionale, ma pur sempre da pagare. E dopo tanti anni a barcamenarsi con metodi più o meno leciti per pagare le spese e dare un valore anche economico al proprio sforzo, ci si sente come se si dormisse su un cuscino di chiodi.
Ed è qui che sta il nodo gordiano, immancabilmente nel lato umano.
La ristorazione negli anni ha avuto una evoluzione che ha attraversato mode, correnti di pensiero, si è scavata delle nicchie ed è riuscita ad aprirsi a 360°. Fino a un lustro fa il pane era una cosa in più a tavola, ora Niko Romito si permette addirittura di servirlo come portata vera e propria, accompagnato a dell’olio. Tutti sono stati in un fast food almeno una volta nella vita e tutti si sono fatti spedire del cibo a casa. Sono moltissimi ormai quelli che hanno provato l’esperienza di almeno uno stellato. Basta andare su Trip Advisor o semplicemente su Facebook per leggere pompose recensione del Sig. Rossi di turno che, sprezzante di tutto, scrive parole al veleno verso professionisti che si sono fatti gavette di venti e passa anni e sono delle vere e proprie istituzioni nel loro campo.
Abbiamo visto già tutto, e siamo convinti di sapere già tutto. Il che ci rende più ignoranti e meno predisposti ad accettare di aprirci al nuovo rispetto a qualche anno fa. Cosa, nel mondo della ristorazione, può ancora darci un sussulto?
Tra i vari aspetti della reclusione domiciliare quello che mi turba di più è non sapere quando finirà, non avere certezze. Con esso, tutte le domande che non avevo mai avuto il tempo di farmi. Quello che facciamo, lo facciamo noi per noi o per chi? In che modo plasmeremo questo mastodontico settore? Quando riapriremo le cucine e accoglieremo di nuovo i clienti al tavolo? Ha davvero ancora senso vivere una vita stabilendo come tempo di riferimento quello passato in cucina, con tutto il resto che deve necessariamente adeguarsi, seguendo un puerile e superato concetto eroico dell’uomo che dimostra la sua virilità lavorando diciotto ore al giorno?
Il Coronavirus ha innegabilmente cambiato il nostro concetto di insieme, di socialità e anche le nostre abitudini alimentari, almeno in parte. Questo porta con sé nuove sfide, di cui bisognerà prendere coscienza come esseri umani e come professionisti. Chi pensava di poter davvero lucrare speculando su turismo “una botta e via” o su menù a basso prezzo e bassissima qualità, potrebbe non trovare per molto tempo la “sua” fetta di mercato.
Potrebbe, nella prossima reincarnazione della ristorazione, nel prossimo sogno in cui ci culleremo, venire finalmente data importanza alla qualità della vita nella stessa misura che viene destinata al cibo. Ed entrambi dovranno essere della qualità più alta possibile, per stabilire nella clientela un ricordo, una necessità. I ristoranti torneranno ad essere pieni, le proposte finalmente diverse ed il cambio menù a cui ha portato il Coronavirus sarà stato solo un brutto incubo.