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Musica

Il quinto Beatles: la storia di Stuart Sutcliffe

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John Lennon, Paul McCartney, George Harrison, Ringo Starr. Quattro nomi, una leggenda. Ma sapevate che c’è stato un quinto Beatles?

Si chiamava Stuart Sutcliffe ed è a lui che dobbiamo l’ideazione del nome The Beatles per il gruppo musicale originario di Liverpool. Un nome destinato ad entrare nella storia della musica e del rock.

Prima di Hey Jude, di Here Comes the Sun, di Come Together, di Let It Be, di Yellow Submarine. Prima della leggenda dei Beatles, la storia del vero quinto Beatles, Stu Sutcliffe.

Il quinto Beatles, Stuart Sutcliffe

Nato ad Edimburgo – in Scozia – il 23 giugno 1940, Stuart Sutcliffe diventò ben presto uno scouse (abitante di Liverpool) quando a soli tre anni si trasferì con la sua famiglia a Huyton, nella zona periferica della città. Gli anni dell’infanzia non furono semplici per Stu, che fu testimone dell’alcolismo del padre Charles e delle violenze fisiche che quest’ultimo perpetrava nei confronti della moglie Martha.

Nel 1956, sedicenne pittore in erba, entrò al Liverpool College of Art. L’accademia fu il luogo perfetto in cui Stuart poté migliorare e dar sfogo alla sua arte, diventando ben presto un eclettico talento e un vero mito tra gli studenti. È qui che, tramite l’amico Bill Harry, conobbe John Lennon. Tra i due si sviluppò una grande amicizia: Stu era il miglior studente del College – John non altrettanto -, così lo aiutò ad affinare le sue capacità artistiche e a studiare per gli esami.

Intanto, il futuro quinto Beatles viveva in un monolocale a Percy Street con Rob Murray (pittore). Insieme a quest’ultimo, oltre che con John Lennon e Bill Harry (scrittore e giornalista), frequentava il Ye Cracke – pub vicino all’istituto d’arte in cui arricchiscono il loro impegno culturale guidati dal loro insegnante Arthur Ballard. Da questo gruppo di quattro giovani ribelli nacquero i Dissenters, un piccolo movimento underground sulla falsariga della Beat Generation statunitense.

La nascita dei Beatles

L’affinità tra John e Stu diventò sempre più solida: oltre l’interesse per Van Gogh e gli impressionisti francesi, i due furono legati dalla passione per la musica dei Buddy Holly. Fu così che, quando – nel 1959 – Sutcliffe si trasferì in un appartamento a Gambier Terrace insieme a Murray, Lennon si aggregò poco tempo dopo.

La loro casa, oltre ad avere un piccolo atelier dove Stuart potette proseguire la sua attività pittorica, diventò presto la sala prove del loro gruppo musicale. Una band che comprendeva anche Paul McCartney, conosciuto in una delle serate che Stu passava al Casbah Coffee Club – locale di proprietà della famiglia di Pete Best, primo batterista dei Beatles fino all’arrivo di Ringo Starr.

Inizialmente si fanno chiamare The Quarrymen, poi The Silver Beatles: ci sono George Harrison alla chitarra solista, Lennon e McCartney a quella ritmica, e Pete Best alla batteria. Stuart suonava il basso, un Höfner President 500/5 che venne persuaso a comprare con i soldi ricavati dalla realizzazione di alcuni murales fatti al club Jaracanda insieme a Rob Murray.

Le sue capacità musicali però non erano eccelse come quelle pittoriche, tanto che spesso doveva suonare spalle al pubblico per mascherare la sua inconsistenza. In ogni caso, il nome The Beatles è farina del suo sacco, è lui a suggerirlo, così come influenza lo stile unico da rockstar della band.

È il 1960, i Beatles ricevettero un ingaggio ad Amburgo. Qui Stuart conobbe Astrid Kirchherr – tedesca, seguace dell’esistenzialismo, ma soprattutto fotografa ufficiale della band nelle loro tappe in Germania – e se ne innamorò. I due si fidanzarono, Astrid diede un ulteriore aiuto nel creare il look peculiare del gruppo suggerendogli il loro taglio inconfondibile, ma Stu decise di abbandonare i Beatles nel giugno del 1961.

Oltre all’amore, giocò un ruolo fondamentale il deterioramento dei rapporti artistici e umani con la band: Sutcliffe non era ben visto dagli altri membri, mentre l’amicizia con John Lennon peggiorò nel tempo – pare che addirittura ci furono violente liti tra i due e, una volta, John lo avrebbe addirittura colpito alla testa con gli stivali.

Il Beatles ‘dimenticato’

Senza drammi, comunque, lasciò la band e consegnò il suo basso a Paul McCartney, chiedendogli di non cambiare le corde nonostante quest’ultimo fosse mancino. Un gesto che “inventa” il modo unico di Paul nel suonare al contrario.

Il quinto Beatles continuò a studiare arte in Germania, all’Hamburg College of Art sotto la direzione del pop artist Eduardo Paolozzi. Soffriva spesso, però, di forti mal di testa, svenimenti e temporanea perdita della vista.

Il 10 aprile 1962, durante una lezione, si accascia a terra. A soli ventidue anni, Stuart Sutcliffe morì per una «paralisi cerebrale dovuta a emorragia nel ventricolo destro del cervello»; circa un anno dopo, tramite esami, si scoprì che nel cervello di Stu si stava sviluppando un tumore, originato da una frattura del cranio prodotta probabilmente dalla lite con il suo caro amico John Lennon.

Nonostante ciò, comunque, Stuart Sutcliffe è stato successivamente ricordato dalla band come un membro importate della storia dei Beatles. È infatti presente sulla fantastica copertina in stile pop art di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, ottavo album pubblicato nel 1967, realizzata da Jann Haworth e Peter Blake.

Di seguito l’infografica dell’album, Stu è il numero 35.

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Da Wikimedia Commons, l’archivio di file multimediali liberi

Inoltre, nel compilation album Anthology 1 del 1995, Sutcliffe suona il basso in tre canzoni registrate nel 1960: “Hallelujah, I Love Her So”, “You’ll Be Mine” e “Cayenne”. Ed è anche raffigurato su tutte le tre copertine delle compilation Anthology.

Per quanto riguarda la sua produzione artistica, alcuni dei pochi dipinti rimasti del quinto Beatles sono in possesso della Walker Art Gallery di Liverpool. La maggior parte riconducibili all’Espressionismo astratto, ricordiamo la serie Hamburg, The Crucifixion e gli autoritratti a carboncino.

 

Se siete incuriositi dalla storia di Stuart Sutcliffe, non vi resta che guardare il film Backbeat – Tutti hanno bisogno d’amore (1994) di Iain Softley.

Nicola Di Giuseppe
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Nicola Di Giuseppe
Un’anima straniera in un corpo napoletano, sognatore a tempo pieno e artistoide a tempo parziale. Si ciba di parole e arti visive, mentre viaggia, scopre nuove culture e tifa Napoli. Ogni tanto, poi, cerca di vincere il fantacalcio.