Oggi, 6 febbraio, è la giornata contro le mutilazioni genitali femminili.
Voluta fortemente dall’ONU, essa ha lo scopo di denunciare una violenza che ancora oggi molte donne subiscono nel mondo, prima ancora di compiere la maggiore età. Sono infatti soprattutto (ma non solo) le bambine e le adolescenti ad essere soggette a tale pratica. Pratica che avviene principalmente nei paesi in via di sviluppo.
Ma in cosa consistono le mutilazioni genitali femminili?
Procedure non mediche
Le mutilazioni genitali femminili (abbreviate per semplicità in MGF) sono state definite dall’organizzazione nazionale della sanità (OMS) come “Procedure che comportano la rimozione parziale o totale degli organi genitali femminili esterni o altre lesioni agli organi genitali femminili per questioni non mediche”. Si tratta dunque di procedure di intervento il cui scopo non è mai la salute psico-fisica della donna. Fra queste la più nota (oltre che la più violenta) è l’infibulazione.
L’infibulazione
L’infibulazione trova le sue radici nell’antico Egitto. Essa consiste non solo nella rimozione degli organi genitali esterni ma anche nella dolorosa e violenta operazione di bruciatura della pelle a cui segue la cucitura della vulva. Viene quindi lasciato solo un foro per la fuoriuscita dell’urina e del sangue mestruale fino a che la donna non si sarà sposata. Sì, perché all’infibulazione segue poi anche la defibulazione ovvero la scucitura della vulva, fatto dallo sposo la prima notte di nozze.
Le conseguenze di una violenza
Le conseguenze di una mutilazione genitale come l’infibulazione sono molte e sono gravi.
Le vittime dell’infibulazione infatti non solo sperimentano il dolore e lo shock dovuto alla brutalità di un’operazione eseguita senza anestesia, ma vanno incontro a una molteplicità di problemi.
Nello specifico sul lungo termine, a livello fisico, l’infibulazione può comportare la formazione di: infezioni, calcoli e fistole oltre che il ristagno del sangue mestruale e l’incontinenza.
Detto in termini più semplici: l’infibulazione danneggia in modo permanente un apparato precedentemente sano. Questo comporta anche un aumento sostanziale dei rischi durante il parto sia per il bambino che per la madre, e dunque un aumento delle probabilità di morte per entrambi.
Se ciò non bastasse possiamo anche ricordare le gravi conseguenze che tale tortura ha a livello psicologico. L’infibulazione può infatti facilmente portare all’insorgere di disturbi psicologici quali ansia, depressione e psicosi oltre che alla perdita di desiderio sessuale. Una tale pratica infatti viola l’intima della donna facendo del suo corpo un oggetto su cui decidono gli altri (non molto diversamente da come avviene nello stupro) e le impedisce di provare piacere sessuale.
Una scelta “necessaria”
Davanti a tali conseguenze spontaneo è chiedersi perché dei genitori dovrebbero scegliere di far questo alla propria figlia. E la risposta non è semplice.
Non è infatti sufficiente dire che alla base di tale scelta stia “la tradizione”. Ovvero che stia l’idea per cui “si è sempre fatto così e quindi si continuerà così”. Certo è indubbio che essa contribuisca, ma non possiamo non riconoscere la presenza di un’altra causa: la volontà di assicurare un futuro alla propria figlia.
L’infibulazione viene infatti praticata nelle società in cui è molto radicata la visione della donna non come soggetto sessuale ma come oggetto sessuale . Società in cui il piacere sessuale per la donna è peccato, la rende impura ed essere impura significa stigma e emarginazione sociale.
Così i genitori (e in particolari le madri che ben conoscono queste dinamiche) scelgono l’infibulazione; in modo tale da poter permettere alle figlie di sopravvivere in una società dove l’unico ruolo che possono avere è quello di mogli e madri.
La speranza nel futuro
Ad oggi sono 200 milioni le donne che hanno subito una mutilazione genitale, e ci sono circa 3 milioni di bambine a rischio ogni anno. Di queste la più alta percentuale si trova in Africa (dati Amnesty International).
La situazione è quindi drammatica. Ma alcuni tentativi di miglioramento sono stati fatti.
Nel luglio 2003 infatti l’unione africana ha adottato il “Protocollo di Maputo” per chiedere la fine delle mutilazioni genitali femminili. Nel 2013 invece sono stati 18 i paesi africani che hanno messo al bando qualsiasi forma di mutilazione. Purtroppo però ciò non è stato sufficiente ad eliminare definitivamente tale fenomeno.
Pratiche di mutilazioni rimangono infatti presenti a livello sociale in molti paesi, dove quindi sono sempre più necessarie campagne di prevenzioni e sensibilizzazione.
Solo in questo modo infatti si potrà cambiare quella mentalità che permette una violenza del genere ed evitare quindi che vittime ne siano altre bambine.