Potrebbe bastare leggere un libro di storia, appurare che ogni secolo ha visto l’alternarsi di fatti e vicende simili e rendersi conto che il futuro è già scritto. Questo, all’apparenza, è il canovaccio su cui si sviluppa la storia di Eduard Streltsov, il geniale talento calcistico della Torpedo Mosca, leggendaria squadra russa passata dal regime staliniano all’altrettanto rigido governo Khrushchev sino ai giorni nostri. Un racconto del passato che ancora calza a pennello su un presente avvinghiato su pregiudizi e un ordine imposto dall’alto. Su Streltsov Marco Iaria, firma illustre della Gazzetta dello Sport, ci ha scritto un libro, “Donne, vodka e gulag”. Una storia che meritava di essere approfondita, una vita vissuta tra le contraddizioni di una società che esalta il singolo ma solo se allineato per uno scopo superiore. Un monito, se volete, per non abituarsi ai dogmi ma anche per affrontare un nemico invisibile: il tempo. Di tutto questo ne abbiamo parlato con l’autore.
Come sei arrivato a Streltsov: sei appassionato di storie non raccontate, calcio russo, storia sovietica?
Non ho una passione specifica per il calcio russo o per la storia sovietica ma per tutte quelle storie in cui lo sport si intreccia con la politica e la società. Non avevo mai sentito pronunciare il nome di Streltsov prima della visione di un documentario della Bbc su sport e comunismo. Ho scoperto ben presto che in Italia si sapeva poco o nulla su di lui. In generale in Europa, a proposito della sua storia erano filtrate, all’epoca del blocco socialista, informazioni frammentarie e distorte. Così ho voluto indagare e ne è nato un libro.
Come nasce il tuo interesse per Eduard Streltsov, personaggio poco conosciuto in Italia?
Il personaggio e la storia che si portava dietro mi intrigarono subito, ben presto capii che in Italia, e in generale in Europa, era stato scritto molto poco, e in maniera frammentaria, su di lui, per non parlare delle distorsioni della stampa occidentale dell’epoca. Ciò che avveniva al di là della cortina di ferro veniva riportavo con superficialità e approssimazione, prendendo per buone le “verità” degli apparati del Partito.
Si dice che alcune storie vanno portate nelle scuole, questo libro può essere portato nelle scuole calcio?
Sì. Lo sport regala storie esemplari, attraverso piccole storie è in grado di darci una fotografia della Storia con la s maiuscola. Il caso di Streltsov può tranquillamente essere portato nelle scuole. Ma trasmettono insegnamenti simili anche quelle di Sindelar o di Arpad Weisz.
In alcuni passaggi ho avvertito forte e chiaro il richiamo a Sarri (disordine organizzato) con lo stile Pasovocka. “L’approdo al gol doveva avvenire attraverso una fitta rete di passaggi corti, trame avvolgenti in cui ogni giocatore sapeva esattamente cosa fare. In più, i giocatori si scambiavano spesso posizione in una sorta di ‘disordine organizzato’ […]”. È un accostamento che regge o, in generale, lo vedi calzante al calcio totale che in Italia abbiamo visto da vicino con Sacchi?
Beh, difficile fare paragoni per epoche così lontane e diverse, ma il concetto di un calcio fatto di trame fitte è un filo conduttore che arriva giustamente fino a Sarri.
Parlando ancora di “disordine organizzato”, l’ingresso di Sarri nel “Palazzo” è un pugno al romanticismo del Sarrismo o, al contrario, l’esaltazione di un popolano che conquista il regno?
Sarri sta dimostrando, anche nella comunicazione, di aver assimilato velocemente le esigenze del nuovo ambiente. Si tratta di un professionista perfettamente inserito nel calcio di alto livello, quindi sa benissimo che bisogna anche scendere a compromessi senza per questo rinnegare la propria identità.
Ripercorri l’olimpiade di Helsinki del ’52. Giocatori con la pressione di dimostrare la superiorità sovietica che falliscono contro la Jugoslavia. Giocatori processati, giudicati, Cska radiato e solo dopo la morte di Stalin riammesso nella massima serie nel ’54. Ai giorni nostri, il caso più eclatante è stato quello della Corea del Nord, sbattuto in mondovisione nei mondiali del 2014. Noi parliamo del calcio come di un gioco ma ha ancora una forte funzione sociale, morale, propagandistica. Cose che già sapevi ma cosa hai provato nel rivivere questi ricorsi storici?
In effetti lo sport è sempre stato uno strumento di propaganda per i regimi autoritari o dittatoriali. Basti pensare ai Mondiali di calcio vinti dall’Italia durante il regime fascista. Non è stato meno spietato il regime sovietico. Gli atleti godevano di uno status da privilegiati, avevano benefit come gli appartamenti autonomi in un’epoca in cui la maggioranza della popolazione viveva nelle cosiddette kommunalka, ma non potevano sbagliare, né dentro il campo da gioco né tantomeno fuori, perché dovevano essere un esempio per tutti.
Il talento sprecato. I giudizi sono tanti ma, nonostante i rimpianti, possiamo dire che ogni storia va come deve. La disciplina può essere allenata?
La storia dello sport è piena di talenti sprecati, fino ad arrivare al calcio italiano dei nostri giorni, ai Cassano, ai Balotelli. Difficilmente si può “correggere” il carattere di un atleta.
Significativi sono i tratti in cui leggiamo di uno Streltsov che, dopo i suoi stravizi, viene “processato” dalla politica. Esagerando, in Italia – ma probabilmente ovunque – la strumentalizzazione dello sport a livello propagandistico è all’ordine del giorno, col calcio soprattutto. Processi e condanne a parte, cosa ti ha provocato questa analogia.
Il calcio è il più grande fenomeno di massa della nostra società. In Italia metà popolazione, 30 milioni di persone, è interessata al calcio. Ci si può indignare per certe strumentalizzazioni, ma non stupire.
Streltsov ha sempre voluto distinguersi, in campo, nel look ma restando uno del popolo. Tu sei molto sensibile alla questione dei diritti civili, del libero arbitrio in senso più generale. “Donne, Vodka e Gulag” è anche un’opera per aprire la mente su questo?
Direi di sì. È anche la storia di un ragazzo che amava la libertà, che voleva comportarsi a modo suo, fuori dagli schemi. Non aveva alle spalle una piattaforma ideologica, non poteva essere considerato un “nemico del popolo”, aveva solo il desiderio di comportarsi e vestire come un ventenne occidentale. Soffocare l’individualità è una delle ragion d’essere dei regimi, in nome di una presunta collettivizzazione dei comportamenti che non è altro che conformazione imposta dall’alto.
Senza fare i soliti nomi, in Italia abbiamo avuto un talento con qualche storia simile?
Se pensiamo a una carriera spezzata per volere del regime no, se si prova a fare un paragone con un talento fuori dagli schemi allora mi viene in mente Gigi Meroni.
Soldi e successo. L’opinione pubblica stenta a capire che, per quanto uno possa essere ricco e famoso, la gabbia mentale che conduce a situazioni di disagio – depressione, autodistruzione – è la stessa che intrappola persone “comuni”. Non c’è denaro o fama che tenga di fronte al male dell’anima. Ti fa provare rabbia questa cosa? Ti se imbattuto in scambi d’opinione del genere con qualcuno?
Soprattutto in quest’epoca dei social, si fa presto a fare demagogia e populismo attorno ai personaggi dello spettacolo, e quindi anche dello sport. Lo trovo infantile. C’è una dimensione pubblica e una dimensione personale, l’una non annulla l’altra.
Con Streltsov avremmo conosciuto davvero il Pelè europeo o la sua storia ci lascia uno di quegli interrogativi che rende ancora più affascinante l’imponderabile?
A Mosca e dintorni intere generazioni hanno considerato Streltsov il Pelé russo o il Pelé bianco. Non ho la pretesa di condividere o smontare questo giudizio. Di sicuro la sua carriera spezzata a 21 anni, alla vigilia del Mondiale del 1958 che avrebbe potuto incoronarlo, ci lascia un grandissimo interrogativo. Mi rifaccio alle parole di chi lo vide giocare dal vivo, come il padre del Pallone d’oro Gabriel Hanot, secondo cui Streltsov aveva “una statura di semidio”. I giudizi entusiasti, a quell’epoca, erano pressoché unanimi nella stampa specializzata europea. Streltsov è stato di sicuro uno dei talenti più puri della storia del calcio russo: senza quella condanna al gulag, forse sarebbero stati scritti capitoli differenti.
Luca Villari