«You press the botton, we do the rest»: con questo slogan, la Kodak si lancia sul mercato statunitense alla fine dell’Ottocento. Fu la rivoluzione: il motto dell’azienda è infatti la chiave di lettura allo scoppio del successo della fotografia.
La fotografia, che fino a quel momento era stato un divertissement per i borghesi, agli inizi del Novecento penetra sempre più intensamente nella vita culturale e sociale europea. In particolare, colpisce la sua capacità di documentazione della realtà, a livelli di veridicità che nessuno strumento, fino ad allora, era riuscito ad eguagliare.
La macchina fotografica diventa lo strumento di cui l’umanità moderna non riesce più a fare a meno, assettata di bloccare gli istanti delle bellezze, ma soprattutto dell’orrore, per lasciare detto ciò che non va mai più ripetuto. E poi c’era la guerra, e il suo fascino macabro esercitato sull’uomo che, dal canto suo, ha sempre cercato di rappresentarla in tutta la sua crudezza, forse anche per tentare di comprenderla a pieno. Nel complesso contesto europeo di inizio secolo ed oltre, la guerra era pane quotidiano e la fotografia trovò in essa la propria declinazione migliore, spesso a rischio e pericolo di chi impugnava la macchina fotografica.
Coraggio, passione e documentazione: oggi vi raccontiamo le storie dei 5 nomi della fotografia di guerra più celebri che hanno letteralmente reso onore all’invenzione dell’obiettivo.
Robert Capa
«Capa sapeva che cosa cercare e cosa farne dopo averlo trovato. Sapeva, ad esempio, che non si può ritrarre la guerra, perché è soprattutto un’emozione. Ma lui è riuscito a fotografare quell’emozione conoscendola da vicino.»
Unico e indiscusso, morto questo stesso giorno nel 1954 proprio mentre scattava: Robert Capa è il mito della fotografia come documentazione, la passione per il fine artistico-divulgativo fatta persona.
Tra i 5 nomi della fotografia di guerra, Capa è stato senza dubbio colui che ha reso maggiormente onore all’obiettivo. Pseudonimo dell’ungherese Endre Erno Friedmann, nacque in Ungheria da una famiglia ebrea, e venne soprannominato da subito Bambi, “squalo” in Ungherese. Capa è stato famelico proprio quanto l’animale di cui portava il soprannome: a 17 anni venne arrestato per simpatie comuniste; in seguito al rilascio, lasciò il suo paese per studiare Scienze Politiche a Berlino, città che fu in seguito costretto ad abbandonare a causa dell’avvento del Nazismo.
A Parigi conobbe Gerda Taro, che diventò la sua partner in crime: fu la Taro a coniare per lui uno pseudonimo che avesse un’assonanza americana e gli permettesse di ottenere più commissioni da fotografo freelance.
Paladino dell’autenticità e spinto dal desiderio di raccontare la verità, Capa ci ha lasciato il più grande archivio di reportage bellici esistente, avendo documentato ben cinque conflitti: la guerra civile spagnola, la guerra sino-giapponese, la seconda guerra mondiale, la guerra arabo-israeliana e la prima guerra d’Indocina. Fu durante il conflitto civile spagnolo che scattò la foto che lo consacrò al mondo, ritraendo un miliziano spagnolo nell’esatto istante in cui veniva trafitto da un proiettile.
Era il 1936: dopo quella prima esperienza in trincea, Capa partecipò letteralmente ad ogni guerra che ha ritratto, come un vero e proprio soldato. Attraversò la spiaggia con gli alleati durante lo sbarco in Normandia, scattando foto in mare sotto una pioggia di proiettili. Si gettò con il paracadute per raggiungere le campagne della Sicilia e documentare il momento in cui i soldati americani fraternizzavano con i contadini siciliani. E morì da soldato, ucciso da una mina antiuomo in un campo di battaglia in Indocina.
«Per scattare foto non servono trucchi, non occorre mettere in posa. Le immagini sono lì, basta scattarle. La miglior foto, la miglior propaganda, è la verità»
Gerda Taro
Già nominata in quanto compagna di Capa, Gerda Taro (nata Gerda Pohorylle) merita in egual modo di essere annoverata tra i 5 nomi della fotografia di guerra. Temeraria e famelica tanto quanto il compagno, ne condivise le prime esperienze: famiglia ebrea; carcere per filocomunismo in giovane età, sotto il Nazismo; fuga a Parigi. Nella capitale francese iniziò a fare diversi lavori, ma la sua vita cambiò per sempre dopo l’incontro con l’ungherese Friedmann.
Il giovane le insegnò la fotografia. Lei, dal canto suo, assorbì tutta la visione di Endre, fino a sovrastarla. Per lui coniò uno pseudonimo – lo fece anche per sé stessa -, e con lui iniziò un forte sodalizio professionale (le prime produzioni fotografiche furono pubblicate a nome Taro&Capa). Appena decisero di separare la loro produzione, però, fu la volta di partire per la guerra civile in Spagna: lì, Taro morì a soli 26 anni, investita da un carro armato.
L’evento non scosse solo Capa, assente al momento dell’accaduto. Pablo Neruda ne scrisse l’epitaffio, mentre Alberto Giacometti ne disegnò la tomba al cimitero di Père-Lachaise, prontamente distrutta dai nazisti. Il suo amato le dedicò un libro di fotografie, intitolato Death in the making.
La sua morte eroica, così come la sua storia, hanno contribuito a mitizzarla come figura rivoluzionaria e coraggiosa. È tuttavia indubbio che Taro sia stata una grande fotografa, coraggiosa come pochi, ancor prima di una grande donna.
Aurelio Gonzalez
Non sono un fotografo: sono, o vorrei essere, un militante con la macchina fotografica al collo.
In questa lista dei 5 nomi della fotografia di guerra, sentiamo di annoverare anche Aurelio Gonzalez. Gonzalez ci ha lasciato in eredità la testimonianza completa del colpo di stato in Uruguay del 1973, di cui nascose l’archivio fotografico per salvarlo, ed è emerso solo recentemente.
Di origini spagnole, anche lui nel 1949 prese la volta della Francia; si spostò a Casablanca, all’epoca colonia francese. Anche lui venne arrestato, poiché considerato immigrato irregolare: dopo tre mesi di carcere, rifiutò di tornare in Spagna sotto il regime di Franco, e decise di imbarcarsi clandestinamente su una nave da crociera diretta in America.
Aveva solo 22 anni quando la nave attraccò a Montevideo, in Uruguay. Lì conobbe il fotografo spagnolo Lucio Navarro, che aveva combattuto nella guerra civile e che lo aprì al mondo della fotografia. Gonzalez “vide subito nella fotografia il mezzo giusto per lottare contro le ingiustizie e le diseguaglianze“: si iscrisse al partito comunista e cominciò a lavorare come reporter di manifestazioni e riunioni sindacali per il settimanale El Popular. La situazione a Montevideo, e in tutto il Paese, andava però rapidamente precipitando: nel 1973 arrivò il golpe militare, e il suo pensiero non si scostò per un solo minuto dalla documentazione. Continuò a scattare e salvò oltre centomila negativi in barattoli di latta, nascondendoli in un’intercapedine del palazzo del giornale.
Gonzalez, oggi, ha 86 anni. Per anni in esilio, è riuscito a tornare in Uruguay solo nel 1985, dopo la caduta della dittatura. In occasione di una mostra nel 1995, il fotografo rivelò al sindaco la storia dell’archivio perduto: grazie al passaparola, si scoprì che il custode del palazzo del giornale aveva rinvenuto negli anni numerose scatole di negativi, e che altre erano ancora incastrate nei condotti di ventilazione. Ciò che è stato recuperato è stato pubblicato da Gonzalez in un libro intitolato Una historia en imagenes, nel 2015.
Lee Miller
Come poter non parlare di Lee Miller, tra i 5 nomi della fotografia documentaristica che hanno fatto la storia? Allieva di Man Ray, musa di Picasso, Condé Nast e Vogue, Lee Miller fu donna e fotografa dalle mille vite. Si avvicinò alla fotografia sin da bambina, grazie alla passione del padre. Però, la fotografia per Miller ha rappresentato innanzitutto una cura al grave danno subito durante la preadolescenza, ovvero un abuso sessuale da parte di un amico del padre.
Per questo motivo la giovane Lee fece della libertà il suo obiettivo vitale, in un’epoca in cui molte donne non potevano permetterselo. Profondamente inquieta, fu dapprima modella – ruolo che ben presto lasciò per scattare, piuttosto che essere ritratta. Volò perciò a Parigi per imparare la tecnica fotografica, ma anche lì ricadde nel tranello della posa, diventando musa di Man Ray e tanti altri pittori. Tornò negli USA e aprì il suo studio di fotografia; sposò un ricco egiziano per vestire il ruolo di matrona borghese e infine, allo scoppio della seconda guerra mondiale, Lee decise di partire per documentare gli orrori della guerra.
Proprio la guerra, con le sue costrizioni e i suoi orrori, riuscì a far sentire finalmente a suo agio Lee e i suoi scheletri. Ogni fotografia della giovane è permeata da questa ricerca di libertà e di inquietudine che da personale si rivela universale. Sarà la prima donna ad essere fotografata in un campo di concentramento e a documentare l’orrore di Buchenwald e Dachau, fino a farsi ritrarre spavalda e agguerrita nella vasca da bagno di Adolf Hitler, nello scatto che l’ha consacrata al coraggio dell’informazione.
Claire Thomas
Concludiamo questa rassegna dei 5 nomi della fotografia di guerra con una donna, e un conflitto, più vicini a noi. Claire Thomas è infatti la giovane fotoreporter inglese che ha documentato, tra le tante guerre, la battaglia contro l’ISIS, e le sue fotografie sono state pubblicate su quasi ogni quotidiano nazionale: The Guardian, The New York Times, National Geographic ecc. Come tutti, ha iniziato a scattare semplicemente per mostrare i suoi viaggi alla sua famiglia. Solo durante una campagna in Ghana, in cui non si occupava di fotografia bensì di aiuti umanitari alle donne sieropositive, capì che il ritratto fotografico poteva essere lo strumento adatto a sensibilizzare il mondo e ottenere riscontri positivi.
Claire Thomas non si limita a ritrarre sotto forma documentaristica, ma anzi, cerca di connettere l’osservatore ai soggetti che ritrae, per raccontare in maniera più intima la crudeltà della storia. Sul fronte iracheno, Claire Thomas ha schivato una pioggia di proiettili, così come fece Capa anni addietro: la fotografia, in questo caso, si rivela come lo strumento per il singolo grazie cui attaccarsi alla vita, per il fine ultimo della divulgazione.
Penso che la fotografia sia molto importante nel fornire consapevolezza della sofferenza umana attraverso immagini inevitabilmente inquietanti e sconvolgenti. Evitare di mostrare immagini grafiche e crude significherebbe, a mio avviso, igienizzare o deviare dalla verità.