Da marzo 2020 siamo stati (a periodi alterni e a zone colorate) confinati nelle nostre case e ogni attività che della nostra vita si è spostata online. Sostenuti dalla nostra connessione abbiamo lavorato, studiato e socializzato: abbiamo travasato online al ritmo di un click la nostra normalità in ogni suo aspetto. E così anche l’odio quotidiano non ci ha abbandonato.
Non è d’altra parte una novità che internet sia luogo dove violenza e bullismo imperano: protetti dallo schermo gli odiatori online si sentono liberi da ogni responsabilità. Ma ciò che sorprende è il modo in cui la pandemia sia stata una possibilità per arrivare a una nuova frontiera di cattiveria riassumibile con un solo nome: “Zoombombing”.
“Zoombombing”: la nuova frontiera dell’odio online
Il termine “Zoombombing” fa riferimento al noto programma software di videotelefonia “Zoom”, tra i più usati negli ultimi mesi e che per questo è stato il primo teatro di questo fenomeno.
È infatti all’interno di piattaforme online come quest’ultima che lo “Zoombombing” accade poiché è grazie ad esse che vengono organizzati incontri, convegni e open-day: le occasioni propizie per un fenomeno del genere.
Lo schema è sempre lo stesso: il link dell’incontro viene fatto girare all’interno di gruppi predisposti allo scopo, i cui membri possono così accedere alla stanza online e dare inizio allo “spettacolo”.
Una volta dentro lo “Zoombombing” si concretizza attraverso insulti e immagini degradanti che vengono proiettate allo scopo di impedire il proseguire dell’incontro e ledere la dignità degli individui.
Purtroppo quando un fatto di questo genere accade, spesso l’unica scelta possibile è quella di dover cedere e chiudere la stanza perché per quanto ci si provi è spesso impossibile escludere i “bulli”.
Così lo “Zoombombing” colpisce è ad essere maggiormente toccate sono le minoranze.
Un fenomeno in aumento
Da dicembre 2020 a febbraio 2021 lo “Zoombombing” si è consumato ai danni di varie persone.
Una tra le prime a denunciarlo è stata la scrittrice e giornalista femminista Giulia Blasi.
In un articolo scritto per “L’Espresso” ha raccontato infatti d’esserne stata vittima assieme alla filosofa Maura Gancitano durante una conferenza tenuta per l’università di Perugia.
Dopo di lei è stato il turno di Marina Pierri, scrittrice e giornalista, a gennaio di quest’anno.
Il 25 del mese scorso infatti, durante un seminario attorno al suo ultimo libro: “Eroine”, ha dovuto sopportare l’attacco di un gruppo neofasciti.
Quest’ultimi evidentemente ritenevano molto divertente scriverle in chat frasi di grande acume come: “Donna schiava zitta e lava” (vorrei commentare la grammatica ma sinceramente è la cosa meno preoccupante) accompagnando il tutto con svastiche.
Il giorno ancora prima era stata invece Arcigay Torino ad essere prese di mira.
Durante gli open-day online dell’associazione infatti urla e minacce hanno colpito i partecipati fino a che non si è riusciti a estromettere i “disturbatori”.
Non si sono poi risparmiati le violenze di stampo antisemita, all’interno degli incontri voluti per la Giornata della memoria del 27 gennaio.
Si è trattato, in questo caso, di veri e propri raid che hanno colpito più di uno dei tanti eventi organizzati per l’occasione, spingendo, in alcuni casi, gli organizzatori a sospenderli definitivamente.
Colpire i “Safe place”
Ciò che questi mesi hanno dimostrato e che si rende protagonista di un atto di “Zoombing” sa esattamente dove colpire: nei “Safe place”.
Con tale termine si va ad indicare i luoghi che vengono considerati sicuri da chi è quotidianamente discriminato. Sono luoghi in cui si ha la certezza che la propria esistenza non sarà messa in discussione e dove mai ci si sentirà in pericolo: un porto sicuro per chi ogni giorno combatte anche solo per esistere.
Si parla più nello specifico, di incontri e realtà anti-xenofobe, femministe e legate alla comunità LGBTQIA+.
Pre-pandemia queste realtà erano fisiche e garantivano una sicurezza reale dal momento che l’assenza di uno schermo e dell’anonimato intimorivano i “bulli digitali 2.0”. Col Covid questo non è più possibile, con conseguenze di non poco conto.
La brutalità di un atto del genere infatti è forse difficile capire se non si entra nell’ottica di chi lo compie.
Tale azioni infatti non sono casi isolate ma sono figlie del medesimo mostro e della medesima volontà: quella di annientare.
Si colpisce i “Safe place” perché si vuole togliere qualsiasi spazio e possibilità di parola a chi già fatica ad avercele all’interno della società. Così facendo infatti si ricorda che esisterà sempre un modo per opprimere e che mai chi è discriminato potrà sentirsi al sicuro.
Ciò spesso è devastante.
La forte sensazione di paura, smarrimento e oppressione logora infatti l’individuo che non si sente più in alcun modo tutelato e dunque ancora più fragile.
Per questo il fenomeno dello “Zoombombing” non deve assolutamente essere preso sottogamba ma deve essere affrontato e limitato per quanto possibile.
Finirà, probabilmente, con la pandemia e con la ripresa dei luoghi di incontro reali ma fino ad allora nessuno deve essere lasciato indietro.
Miriam Ballerini
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