Esistono eventi della storia che i libri scolastici hanno cancellato.
Fatti di cui poco si sa perché accuratamente oscurati da chi non li ha ritenuti “degni” d’essere tramandati.
Così intere esistente, esperienze di vita, sono state sommersi dal passare del tempo e al loro ricordo si è sostituito l’oblio.
Questo è accaduto a molti ma soprattutto a molte.
Esistono infatti interi gruppi di donne che, protagonisti di eventi drammatici, sono stati poi dimenticati dalla storia.
Fra queste vi sono anche le così dette “Comfort Women”, ovvero le “donne di conforto”.
Le “Comfort Women” infatti rappresentano una delle tante pagine oscure della seconda guerra mondiale, ma sono pochi coloro che ad oggi conoscono ciò che furono costrette a passare.
Per questo oggi, per la rubrica “Le 20 donne dimenticate dalla storia”, noi abbiamo scelto di parlare di loro.
Una logica perversa
Fu stupro legalizzato.
Questa breve frase ben introduce un fenomeno complesso come quello delle donne di conforto, ma un fatto storico non può mai essere sintetizzato da una sola frase.
Proviamo allora a partire dal contesto.
Come già detto tale fenomeno si lega ai fatti della seconda guerra mondiale e, più specificatamente, è legato alla dominazione giapponese della Manciuria e della Cina avvenuta a partire dagli anni ‘30 del ‘900.
Fu di fatto con l’imporsi della presenza dei soldati nipponici sul territorio del “nemico” che si posero alcuni problemi: come evitare la trasmissione delle malattie venere e gli stupri di guerra ai danni della popolazione civile?
Tali motivazioni appaiono porsi in contradizione con la frase detta inizialmente: in che modo uno stupro può prevenire un altro stupro?
La verità è che la realtà è molto più complessa della semplice logica umana e gli orrori dell’uomo rispondono spesso a meccanismi incontrollabili e perversi.
Di fatto per il Giappone il problema non era la violenza in sé ma la possibilità che tale violenza fosse incontrollabile e senza regola.
Così per evitare gli stupri di guerra si crearono luoghi dove la violenza e l’abuso erano la norma, la normalità: i “Centri di conforto” (da qui il termine “Comfort women”).
Qui venivano condotte le “Comfort women” con lo scopo d’essere sfruttate come schiave sessuali dei soldati giapponesi.
L’uso della forza sui civili
Le prime furono su base volontaria.
L’impero giapponese infatti riuscì ad “arruolare” delle donne giapponesi senza costrizione (probabilmente perché non consce di ciò che avrebbero dovuto sopportare) ma poi ciò non fu sufficiente.
Divenne col tempo necessario un numero maggiore di donne, le volontarie non bastavano più, e così si iniziò ad usare l’inganno e il ricatto.
Alle ragazze (alcune delle quali appena quattordicenni) veniva garantito un “lavoro” in fabbrica o all’interno di un ospedale militare per convincerle.
Quando questo non era sufficiente si passava al ricatto nei confronti della giovane e della sua famiglia o al rapimento.
(È sorprendente, o forse no, constatare che le vittime della tratta umana sono ancora oggi costrette attraverso questi stessi meccanismi)
Le condizioni disumane delle “Confort women”
Una volta giunte all’interno dei “Centri di conforto” si aprivano le porte dell’inferno.
Considerate, infatti, nient’altro che oggetti del cui uso vi era sempre una fila di uomini desiderosi di usufruirne, le giovani erano costrette a turni di lavoro massacranti.
Il loro corpo era alla totale mercé dei clienti che ne potevano disporre finanche a seviziarlo e a decidere la morte della ragazza.
A ciò si deve anche aggiungere la rapida diffusione di malattie veneree.
Quest’ultime erano curate da medici che prima abusavano delle loro pazienti e successivamente somministravano a loro farmaci intossicanti.
Si calcola che solo il 25% delle “confort women” sopravvisse a tali condizioni, le restanti morirono tra atroci sofferenze.
Il coraggio di chi resta
Il fenomeno delle “confort station” ebbe fine solo un anno dopo la conclusione del conflitto mondiale ma nulla fu fatto per le vittime.
Certo, l’impero giapponese punii i principali responsabili ma la motivazione non si deve ricercare nella volontà di garantire tutele alle vittime, bensì nel voler sanzionare la violazione dell’ordine dell’esercito imperiale di reclutare solo donne volontarie.
I soldati non avevano rispettato gli ordini e per questo andavano puniti, poco importava delle sofferenze a cui tutte le “Comfort women” erano soggette.
Sarà poi la forza delle sopravvissute a permettere l’ammissione di colpa da parte del Giappone nel 1993 anche se ciò non fu sufficiente per dar risonanza alla vicenda.
Gli anni sono passati e ad oggi ciò le “Confort women” sono state dimenticate dai più ma possiamo, e anzi dobbiamo, provare a ricordarle.
Sarà infatti confrontandoci con le atrocità del passato che saremo, forse, in grado di cambiare il nostro presente affinché in futuro ciò non avvenga più.