Attraverso scene che ricordano le immagini che abbiamo visto a maggio, quando tutto il mondo si mobilitava a sostegno del movimento Black Lives Matter, l’ultimo film di Aroon Sorkin, “The trial of the Chicago 7”, disponibile su Netflix ci spinge a riflettere, ad avviare delle riflessioni critiche rispetto a temi che ci riportano alle notizie di cronaca.
Negli ultimi giorni, in particolare, siamo stati tempestati da video e immagini delle proteste dilagate in Francia, a seguito di una nuova legge sulla sicurezza che vieta di filmare poliziotti e agenti in servizio.
La storia si ripete?
Sorkin, creatore di “The Social Network” e “Molly’s Game”, racconta la storia del processo affrontato da 7 imputati, individuati a seguito delle proteste organizzate di fronte alla Convention democratica svoltasi nell’agosto del 1968. Dopo l’elezione del presidente Nixon nel novembre di quell’anno, sette rappresentanti dei movimenti pacifisti dell’epoca furono accusati di aver incitato le rivolte: David Dellinger, Rennie Davis e Tom Hayden della Commissione di Mobilitazione Nazionale per la Fine della Guerra in Vietnam; Jerri Rubin e Abbie Hoffman, hippies dello Youth International Party; John Froines e Lee Weiner, con l’accusa di aver aiutato i manifestanti nella costruzione di ordigni.
Il contesto storico in cui avvenne il processo lo conosciamo: il Sessantotto, il contrasto alle strutture di potere dominanti e le loro ideologie, periodo in cui anni in cui negli Stati Uniti in particolare le lotte si batterono contro la Guerra in Vietnam e contro la discriminazione razziale degli afroamericani. Un’America reduce dall’assassinio di Martin Luther King icona della non-violenza e delle battaglie per il riconoscimento dei diritti civili dei neri, e di quello di Robert Kennedy, plausibile candidato democratico alla presidenza.
Alle proteste sorte al di fuori della Convention democratica, il governo rispose con violenza, inviando truppe militari a reprimere la folla. “The whole world is watching”, intonano i manifestanti, mentre le immagini della polizia americana mentre massacra decine di giovani vengono trasmesse in diretta TV.
Durante il film l’attenzione viene condotta a più riprese sulle discrepanze presenti nelle diverse anime dei movimenti pacifisti, in particolare sulle critiche degli hippies nei confronti dell’eccessiva politicizzazione dell’organizzazione studentesca “Student for a Democratic Society”.
Oltre alle fratture interne ai movimenti, che non hanno permesso un’azione unita e capace di opporsi alle forze repubblicane, il filo conduttore del film è rappresentato dal perpetuarsi di violenze e massacri da parte delle forze dell’ordine statunitensi. Una violenza sistemica, “giustificata” dalla mancanza di permessi per le manifestazioni, che gli attivisti si erano visti negare dal governo cittadino. In quell’occasione, la polizia e i militari mobilitati dall’esercito sembravano alimentare e provocare i manifestanti, piuttosto che riportare ordine: gas lacrimogeni e manganelli sono protagonisti delle immagini d’archivio utilizzate dal regista.
In una scena in particolare, emergono le due Americhe distinte: dentro ad un bar, i politici appena usciti dalla Convention, intenti a bere e ascoltare musica, fuori dalla vetrata i manifestanti, circondati dalle forze dell’ordine che non si fanno scrupoli nell’uso della violenza.
Nel film emerge l’atteggiamento fortemente discriminatorio perpetuato nei confronti del movimento delle Pantere Nere, di lotta per i diritti civili dei neri, dentro la stessa aula di tribunale: Bobby Seale, uno dei co-fondatori del movimento, giunto a Chicago in rappresentanza, venne ritenuto responsabile dei disordini assieme agli altri sette imputati. Alle sue ripetute richieste di essere difeso dal proprio avvocato, Seale, oltre ad accumulare accuse di “oltraggio alla Corte”, venne legato e imbavagliato, per impedirgli di interrompere lo svolgersi del processo: un immagine che provocò una forte indignazione nel mondo intero.
Alla fine del processo, Hoffman, Rubin, Dellinger, Hayden e Davis furono condannati a 5 anni di reclusione, mentre John Froines e Lee Weiner furono assolti; a Seale venne concesso l’errore giudiziario e fu estromesso dal processo.
La voce della critica
“Il film offre un resoconto avvincente, da una parte allarmante e dall’altra rassicurante, di un momento di polarizzazione e conflitto violento. Non è come oggi, ma le analogie sono abbastanza per indurre a riflettere su cosa accade in una democrazia quando il potere di Stato si confronta con il dissenso popolare.” (A.O. Scott, New York Times)
Nonostante il rimando al dissenso espresso durante le proteste di Chicago nel ’68 e i movimenti di lotta del Black Lives Matter, oltre che il delineamento esplicito di un’America spaccata in due, la critica ha messo in luce come la libertà del regista nell’interpretazione di alcune scene abbia reso la storia forse più “gradevole” di quello che è stata in realtà.