Era il sedici aprile 2013 quando il suo nome salì agli onori della cronaca.
Quella sera la persona che aveva amato, aveva mandato due uomini a fargliela pagare.
Lei voleva interrompere la loro storia. Lei non meritava più di vivere.
Lucia Annibali quella sera è stata sfregiata con l’acido. Ha riportato sul volto ustioni che l’hanno costretta ad innumerevoli interventi per cercare di resistere a ciò che il suo persecutore voleva farle: cancellarla, cancellare il suo volto, ciò che la identificava.
Era questa la sua pena per essere andata contro chi tentava di controllarla.
In quel gesto c’era tutto l’odio di chi non poteva tollerale che una donna di scegliesse liberamente.
La colpa d’essere libere
La storia di Lucia Annibali è la sua storia, ma in realtà è la storia di molte altre donne.
È la storia di tutte le donne vittime di femminicidio (o di tentato femminicidio) la cui unica colpa era quella di essere donne libere.
Per questo sono state punite e per questo si parla di femminicidio.
Contrariamente a quanto si crede infatti il termine “femminicidio” non vuole indicare l’identità di genere della vittima bensì il movente.
Quando si parla di femminicidio infatti non si indica che ad essere stata uccisa è una donna ma che, piuttosto, è stata uccisa in quanto donna.
In una società che insegna una mascolinità tossica basata sul potere e sul controllo, sulla figura del “maschio alfa” che non deve chiedere mai, il pensiero che una donna scelga per sé è per molti intollerabile.
È un’onta, e l’onta va punita cancellando; cancellando la donna.
Un meccanismo diffuso
Punire e cancellare le donne per le loro scelte di libertà non è solo il frutto di una relazione infetta da una visione patriarcale ma è un meccanismo che la nostra società mette in gioco molto spesso.
La storia di Lucia Annibali ne ancora una volta esempio.
È stato a febbraio di quest’anno infatti che Lucia ha denunciato d’essere stata vittima di attacchi online dopo che aveva, in quanto deputata di Italia Viva, presentato un emendamento.
“Luca Varani (l’uomo che la sfregiata) sei il mio mito”.
“Onore e grazie a Luca Varani, hai fatto il tuo dovere da uomo per una misera infame”.
Sono questi solo due delle decine di insulti denunciati da Lucia Annibali.
Insulti che la colpiscono sul suo privato, su quel dolore con cui ha dovuto convivere.
Insulti che hanno come unico scopo quello di zittirla.
Non si può infatti sopportare una donna che sceglie di avere un ruolo politico attivo e di esprimere la propria opinione, specie se questa opinione non è conforme alla nostra.
Così non si critica l’operato, ma si colpisce la sfera personale, sperando che questo la spinga a non parlare più, ad annullarsi, a cancellarsi.
Lasciare una traccia
Sono meccanismi subdoli attuati da una società segnata ancora dalle disparità di genere. Una società in cui però, a volte, qualcosa di questi meccanismi si incrina, si rompe.
C’è chi non ci sta.
Lucia Annibali ha denunciato.
Lo ha fatto a febbraio quando l’odio del web le si era riversato addosso. Ma l’aveva fatto già sette anni fa (come è ben noto), rendendo possibile la condanna per Luca Varani a vent’anni di reclusione per tentato omicidio.
Quella denuncia fu importante, fu necessaria.
La stessa Lucia ha detto in un’intervista che, inizialmente titubante, scelse poi di denunciare perché con ciò potesse lasciare un segno.
Quella notte terribile non l’ha cancellata, da quella notte lei si è rialzata e ha trovato le forze per far sì che il suo aggressore non potesse più far del male.
Lucia ha lasciato la sua traccia. Con la sua denuncia ci ha permesso di ricordare che nessun essere umano ha diritto di cancellare l’esistenza di un altro, e, oggi, nel giorno del suo compleanno, le diciamo grazie anche per questo.
Miriam Ballerini
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