Era il 1945, sul finire della seconda guerra mondiale, quando Hong Kong ritornava nelle mani dei britannici. Ritornava, sì, perché la storia che accumuna la città e la Gran Bretagna ha radici profonde, a partire dal 1842, subito dopo la prima guerra dell’Oppio, anno in cui Hong Kong diventa colonia britannica. Un’egemonia, quella inglese, che ha profondamente influenzato la città, istituendo nei suoi abitanti un pensiero e stile di vita all’occidentale, affermando così una forte cultura anticinese che vede nel colosso asiatico una minaccia sempre più grande.
Da colonia britannica a regione amministrativa
Da molti mesi a queste parte le strade di Hong Kong sono animate da manifestazioni contro il dominio cinese. Per comprendere le ragioni di tali proteste dobbiamo guardare alla storia della ex colonia britannica. Sappiamo che subito dopo la guerra, Hong Kong passò sotto il dominio britannico e ci rimase fino al 1997, anno del cosiddetto “Handover”. Come suggerisce la parola, Hong Kong fu consegnata dal Regno Unito alla Repubblica cinese. Da allora Hong Kong è “un Paese due sistemi”, il che significa che è sì sotto il controllo della Cina, ma come regione amministrativa speciale. La citta è ancora in un certo senso autonoma, poiché mantiene un sistema di governo ed economico separato. Ma il tutto ad una condizione: che a 50 anni dall’Handover, precisamente nel 2047, Hong Kong rientri sotto la sovranità cinese.
Tra proteste e paure
Vediamo ora il motivo delle proteste che hanno portato migliaia di giovani nelle piazze. Tutto è iniziato con la proposta di legge sull’estradizione, da parte del governo di Carrie Lam. Secondo tale legge, il governo potrebbe estradare i sospetti criminali in Cina, Taiwan o Macao.
Se vista così la legge non sembra portare a nulla di male, i protestanti temono che andrà a punire anche gli attivisti dell’opposizione, coloro contro il regime cinese. Anche se il governo ha assicurato che non sarà così, alcuni vedono la proposta di legge come un pretesto per istituire un legame più forte tra la città e la Repubblica Cinese e di conseguenza svalutare il governo democratico di Hong Kong.
E tali paure non sono del tutto vane: martedì 30 giugno scorso è stata approvata la legge sulla sicurezza dello Stato che proibisce gli atti di secessione, sovversione, interferenza straniera e di terrorismo a Hong Kong. Una legge che fa paura perché mette freno alla possibilità di esprimere il proprio dissenso politico e pone coloro accusati di tali violazioni dinanzi ad una potenziale incarcerazione. Per i cittadini di Hong Kong questa legge segna la fine delle libertà democratiche di cui hanno goduto finora e di cui in teoria avrebbero dovuto godere ancora per 27 anni.
Un futuro incerto
Le rivolte ad Hong Kong si vanno ad aggiungere a una lunga lista di movimenti di proteste sorti nell’ultimo periodo: primo fra tutti, il Black Lives Matter. Cittadini in diverse parti del mondo hanno scelto di non rimanere più a guardare, ma di scendere in piazza. Una presa di coscienza collettiva che da una parte ci porta a pensare al futuro che aspetta questi giovani. Un futuro la cui premessa è una pandemia globale e che per questo non può che essere incerto. Le proteste diventano la prassi perché il migliore canale per i giovani di esprimere il loro dissenso.
Se i motivi delle proteste sono diversi, ciò che sta alla base è la insoddisfazione dei cittadini nei confronti dell’amministrazione dei loro paesi. Tale insoddisfazione può portare ad un attivismo più ampio ispirato alla disobbedienza civile così come teorizzata da grandi pensatori, una fra tanti Hannah Arendt.
Violenza o disobbedienza?
Non si può pensare di spegnere il fuoco con altro fuoco: le proteste violente sono un pretesto perfetto per i governanti di etichettare tali manifestazioni come atti di puro vandalismo da reprimere ad ogni costo, giustificando così leggi quali quella recentemente approvata ad Hong Kong.
Secondo Arendt, atti di violenza e di vandalismo altro non sono che l’esasperazione di ideologie che animano i giovani e che possono portare solo ad ulteriore divisione. Con questo la filosofa non nega la possibilità di opporsi alle leggi, ma al fine di introdurre il nuovo nella società e esprimere il proprio dissenso l’uomo deve ricorrere alla disobbedienza civile: una violazione disinteressata, consapevole e intenzionale di una legge valida, emanata da un’autorità legittima; la violazione deve essere pubblica e pubblicizzata perché espressione dell’opinione di un gruppo, senza interessi personali. I movimenti di proteste odierne hanno tutti i requisiti per proporsi come rappresentanti della disobbedienza civile, ed è ad essa che si devono rivolgere per mettere una volta per tutte la parola fine alle violenze.
Forse è uno scenario ancora troppo utopico per considerarlo attuabile in brevi tempi, ma ciò che resta fondamentale è prendere consapevolezza di quello che sta accadendo. Rimanere indifferente in tali situazioni non è più possibile.
Chiara Cogliati
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