Negli ultimi anni un fenomeno sempre più diffuso si è radicato nella nostra società tanto da non poterlo più ignorare: si tratta della dominazione linguistica dei forestierismi, o meglio, degli anglicismi, che sembra non lasciare scampo alla nostra povera e trascurata lingua italiana.
Il periodo che ci siamo ritrovati a vivere a causa dell’emergenza sanitaria Covid-19 ne è un chiaro esempio: a spopolare sono state espressioni quali “lockdown”, “droplet”, “smart-working”, servizi “delivery”. Testimonianza del fatto che l’inglese fa cool e gli italiani – o meglio, alcuni italiani – non possono più farne a meno. Ma da dove si origina questo uso improprio e smisurato degli anglicismi?
Internet e globalizzazione
La dominazione degli anglicismi è un fenomeno piuttosto recente concretizzatosi con l’avvento della globalizzazione. Pensiamo ad esempio alle multinazionali, le quali si rapportano con diversi stati e hanno dunque necessità di mediazione e di comunicazione tra le diverse sedi. L’inglese, a tal scopo, è indispensabile.
Allo stesso modo, quando parliamo di globalizzazione non possiamo non citare internet. La rivoluzione digitale ha favorito l’interazione tra persone di diversi parti del mondo, e l’inglese è diventata la lingua degli affari politici e economici a livello internazionale. Ma il dominio di internet non si ferma qui: si lega alla creazione dei social media e con essi la comparsa di nuovi termini che tutt’ora rimangono senza traduzioni quali “influencer”, “follower”, “like”, etc.
In più, internet e i social media hanno rivoluzionato il mondo lavorativo istituendo nuove professioni con tanto di appellativi rigorosamente in lingua inglese: “Social Media Manager”, “SEO Expert”, “Community Manager”, ma anche il più classico “Freelancer”. Sicuramente tutti gli stati – chi più, chi meno – si sono dovuti piegare alla globalizzazione. Tuttavia, ciò che resta sorprendente è come alcune nazioni siano riuscite ad arginare l’anglicizzazione, mentre altre l’abbiano per lo più assecondata.
Tra Puristi, Fascisti e Anglisti
Il dibattito sulla lingua italiana e la sua contaminazione ancora oggi è particolarmente acceso: a prevalere sono gli estremismi. Da una parte c’è chi sembra allinearsi alla politica linguistica adottata durante gli anni del fascismo che prevedeva la lotta a qualsiasi tipo di barbarismo. Una lotta spesso ingiustificata che finiva col debordare nel ridicolo, con l’interdizione dell’utilizzo di francesismi e anglicismi e l’imposizione di una loro traduzione. Ecco che hotel diventa albergo, bar diventa mescita, sandwich viene tradotto da D’Annunzio in tramezzino, e a cadere vittima dell’eccessiva revisione linguistica sono anche i nomi propri: William Shakespeare si trasforma in Guglielmo Scuotilancia.
Dall’altra parte però sembra altrettanto ridicolo utilizzare espressioni – specialmente nell’ambito lavorativo – come “call”, “meeting”, “briefing” per parlare di una semplice riunione tra colleghi, “concept” per indicare l’idea di un progetto, “boss” oppure “coach” per indirizzarsi al capo o l’allenatore. Insomma, ci sono casi in cui dell’inglese possiamo fare a meno.
Ma ciò che spaventa i linguisti italiani è che negli ultimi anni si stanno diffondendo nel nostro vocabolario sempre più parole intraducibili: computer, internet selfie, influencer, social media sono solo alcuni esempi. Quest’ultimo in particolare è un fenomeno tutto all’italiana.
La Francia, una linea di mezzo
L’Italia sembra essere scesa a compromessi con la dominazione della lingua inglese, senza nemmeno troppe opposizioni. Al contrario ci sono paesi che si sono schierati dalla parte della loro lingua, imponendosi di fronte a una dittatura che è meglio prevenire che curare. È il caso della Francia dove nel 1994 è stata istituita la legge Toubon che prevede l’uso obbligatorio della lingua francese nelle pubblicazioni governative, nelle pubblicità, nei luoghi di lavoro, nei contratti e nelle contrattazioni commerciali. Tutto ciò per garantire trasparenza e maggiore chiarezza e allo stesso tempo preservare la lingua francese. Ovviamente nessun francese si sognerebbe mai di tradurre parole come “jeans”, “internet” e “babysitter”, tuttavia, la politica linguistica francese promuove l’utilizzo di alternative agli anglicismi: “jeans” diventa jean al singolare, en ligne espressione più diffusa per indicare il mondo del web, e la “babysitter” è anche detta nounou.
La lingua è cultura
Il modello francese è particolarmente emblematico siccome rappresenta una mediazione – più che una chiusura o una totale apertura – di fronte agli anglicismi. La globalizzazione e le sue conseguenze a livello linguistico non possono essere negate, ma di fronte alla dittatura dell’inglese gli Stati dovrebbero adottare la linea della parsimonia: inglese sì, ma solo lo stretto necessario e nelle giuste circostanze. L’italiano di questo passo rischia una progressiva svalutazione e un conseguente impoverimento lessicale. E questo è un gravissimo problema perché la nostra lingua ci rappresenta quanto le nostre città, la nostra cultura, il nostro cibo e i nostri prodotti. La globalizzazione ci può far soccombere nel rischio di omologazione siccome le singole culture vengono schiacciate. Ma se paesi come Spagna e Francia si sono accorti di tale rischio, l’Italia sembra ancora non dargli il giusto peso, dimenticandosi che la lingua è sinonimo di identità culturale.
L’italiano ci pone in un contesto di comunità, di condivisione e di coesione a livello nazionale: dopotutto la nostra lingua siamo noi che la parliamo e la teniamo viva. Se finiremo col farla annegare nel mare degli anglicismi, che cosa ne sarà di lei?
Chiara Cogliati
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