Bologna, settembre 1944.
La vita era diventata una perenne attesa, ritmata solo dal battito del cuore di una Bolognina speranzosa. Lo sbarco degli Alleati in Sicilia era avvenuto da tempo, ma le notizie che arrivavano erano sporadiche: per mesi l’avanzamento verso Nord aveva proseguito a singhiozzo lasciando un’Italia spaccata a metà, mezza prigione e mezza libertà. L’unica certezza era la resistenza sui colli armata e senza pietà unita a quella silenziosa in città.
Dicono siano arrivati nelle Marche… Speriamo manchi poco alla liberazione…
Nel quartiere ancora nessuno in famiglia sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo freddo bellico. Non lo sapeva Alberto che, correndo verso l’orto con le sorelline, aveva rubato cinque minuti alla realtà. Lo ignorava Giovanna la sorella più grande che, insieme alla madre, curava quel fazzoletto di terra vicino ai binari come un giardino prezioso. Lo ignorava pure Guido che, in centro per affari con il padre, alla vista di casa si rincuorava sempre un po’. Due soli erano i nomi che mancavano all’appello della famiglia, ma non a quello dei nazi-fascisti.
Il nome di Giovanni era stato chiamato al fronte e non se ne avevano avuto più notizie. E mentre i mesi passavano, il vuoto lasciato era stato riempito anche dalla certezza di quello che da lì a poco sarebbe successo: la chiamata alle armi di Dino, diventato anche lui maggiorenne. Ma la sua risposta non era mai arrivata perché un giorno la famiglia si era alzata e lui non c’era già più nel letto. Sparito. Renitente agli occhi dello Stato. Traditore nella lista dei nazi-fascisti. Che sollievo, ma anche angoscia e rimprovero per quell’incoscienza giovanile.
Dicono che per un ideale si è disposti a morire… Speriamo di non scoprirlo mai…
Ma d’altronde avrebbe dovuto arruolarsi a un’ideologia che non gli apparteneva? Avrebbe dovuto sposare la camicia nera che nel profondo rinnegava? Un dilemma attorno al quale si arrovellavano in silenzio, giorno dopo giorno la sua famiglia. E che cosa avrebbe potuto fare un padre per salvare un figlio da morte certa nel caso lo avessero scoperto? Non sapeva neanche dove si nascondesse, ma doveva provarci. Poi, quel giorno arrivò.
Dicono ci si riesca a nascondere bene nelle cantine… Speriamo non si allaghino mai…
Il quartiere della Bolognina era così chiamato perché il grande spazio verde alla prima periferia era diventato esso stesso una piccola Bologna. Le strade del quartiere, puntellato di palazzi ospitanti operai, ferrovieri e le rispettive famiglie, erano affollate come dentro le mura. L’offerta di negozi e di prodotti era la stessa, non esisteva motivo di andare “su in centro”. Tutti gli spazi erano comunicanti, i cortili aperti a chi abitava i palazzi e le cantine collegate le une alle altre. Il nascondiglio perfetto per disertori, renitenti e partigiani recapitanti in fretta un messaggio.
Dicono ci sia stata una soffiata… Speriamo si sbaglino…
Ai tempi di guerra, le informazioni interessanti venivano pagate a peso d’oro, in riconoscimento e denaro. Si vede che qualcuno aveva bisogno di guadagnare entrambe le cose su alcuni ragazzi che avevano rifiutato di arruolarsi e vivevano da alcuni mesi come topi tra cantine e spazi sporchi e sconosciuti. Il rastrellamento avvenne rapido e senza mezze misure. Solo una soluzione era possibile per chi rifiutava il regime: la fucilazione al carcere della Dozza.
Dicono che questa carta lo salverà… Speriamo di riuscire nell’intento…
Saputa la notizia, passata di bocca in bocca in città, il padre di Dino già volava in bici fino alla questura di Bologna per un permesso di rilascio eccezionale che, dopo ore di colloqui e Dio sa cosa, gli arrivò tra le mani. E via di nuovo lungo via Indipendenza, il ponte della stazione, la casa-quartiere, tutta la via Ferrarese, la bici cadeva ai suoi piedi mentre oltrepassava il portone del carcere, percorreva il corridoio stretto e già i fucili scaricavano i colpi senza pietà oltre la porta maledetta e la polvere da sparo invadeva l’aria e non c’era più nulla da fare. Era arrivato troppo tardi.
Il dolore scaturito da questo evento ha permesso ai ricordi di diventare memoria seguendo, nel corso delle generazioni, varie declinazioni. Una volta sposato e trasferitosi in Australia, il fratello maggiore Guido scelse di chiamare il suo primo figlio Dino, il quale a sua volta avuto il primo figlio nel Duemila, scelse per lui il nome Dean. Il fratello minore Alberto, invece, mantenne scrupolosamente intatto il santino che, scoperto dai suoi figli, venne minuziosamente spiegato nella cornice delle circostanze che furono.
Ed è così che il santino arrivò nel nuovo millennio alla pro-nipote, la quale scoprì che quello stesso primo piano è presente oggi in Piazza Maggiore al Sacrario dei Partigiani. Davanti alla Sala Borsa, precisamente in basso a destra. E anche se ogni volta che passa da quella piazza vi butta un occhio in segno di rispetto, ha pensato nel suo piccolo di rendergli un po’ più giustizia questo 25 aprile, scolpendo nel web questo racconto breve a lui dedicato.
Io dico che l’amore verso il prossimo ci salverà… E così, spero, sarà.
P.S.: alla fine, mio zio Giovanni è tornato a casa.
Carlotta Cuppini