Il 12 giugno 1986, la Repubblica del Sudafrica dichiarava uno stato di emergenza che sarebbe durato 4 anni. A causa del’apartheid, infatti, numerose rivolte civili dilagavano in tutto il Paese.
Oggi, le brutali immagini dell’omicidio di George Floyd hanno risvegliato molte coscienze in tutto il mondo; evidenziando quanto sia attuale la questione del razzismo, pure in Paesi che si dichiarano democratici e liberali. Oggi, i manifestanti da ogni parte del globo urlano che la segregazione non è mai del tutto finita.
Separazione
Dell’apartheid parlano, in modo certo più esaustivo di quanto potremmo in questa sede, i libri di Storia.
Le vergognose politiche segregazioniste in Sudafrica vennero istituzionalizzate nel 1948 dalla minoranza bianca che deteneva tutto il potere economico e politico; nonostante rappresentasse meno del 20% della intera popolazione.
Apartheid, letteralmente, significa separazione. Nell’ideologia segregazionista (che sfruttò a proprio vantaggio le già decadute idee naziste) la commistione tra le etnie diverse era considerata abominio. Così nacquero zone per soli bianchi con divieto di transito per i restanti; i negozi servivano prima i bianchi che i neri; i rapporti sentimentali o sessuali tra le due etnie erano visti con disprezzo e, addirittura, sanzionati penalmente. I neri, in definitiva, vennero spogliati di tutti i diritti politici e civili, deportati e schiavizzati. Li incatenarono ai livelli più bassi della piramide sociale. Considerati inferiori e in tal modo trattati; con conseguenze che possiamo immaginare.
Ogni tentativo di ribellione a questa barbarie venne soffocato militarmente. Il regime dichiarò illegale il partito di opposizione, l’African National Congress; il leader, Nelson Mandela, venne condannato all’ergastolo, in un altro 12 giugno (questa volta del ’64), con l’accusa di associazionismo in banda armata.
Crimine internazionale
Solo nel 1973, però, una convenzione dell’ONU (ratificata nel ’76) dichiarò l’apartheid crimine internazionale, inserendolo nella lista dei “crimini contro l’umanità”.
Nel ’76, ancora, il governo segregazionista, di tutta risposta, massacrò centinaia di studenti, unitisi per protestare. Ne scaturì la cosiddetta Rivolta di Soweto, famosa per le violenze che il regime, anche in quel caso, perpetrò contro i manifestanti. Celebre lo scatto di un uomo con in braccio un bambino ucciso dalle forze di polizia, che mostrò la tragedia al mondo intero e scosse l’opinione pubblica; esattamente come, in tempi più recenti, ha fatto il video della morte di Floyd.
La comunità internazionale, allora, non poté ignorare oltre e mise in atto una serie di sanzioni e boicottaggi economici nei confronti del Sudafrica. Alcuni Stati dissentirono e gli USA di Reagan, tra questi, adottarono il cosiddetto “Constructive engagement”.
Esso consisteva nel non applicare le sanzioni e, anzi, incoraggiare gli investimenti, in modo da spronare il governo sudafricano al cambiamento. Inutile dire che un tale atteggiamento finì col favorire l’élite bianca dominante.
Il Paese delle Libertà
Gli Stati Uniti hanno, d’altronde, un rapporto storicamente complicato con il razzismo.
La confederazione è stata materialmente eretta, si sa, grazie allo sfruttamento della schiavitù nera importata dal colonialismo europeo. Anche dopo la dichiarazione di indipendenza, poi, i coloni sfruttarono lo schiavismo, in modo a dir poco barbaro, in molti stati del sud. Trattarono i neri come bestie da soma, li vendettero come proprietà privata, li uccisero, torturarono e asservirono totalmente al soddisfacimento di qualsiasi loro capriccio. L’elenco di opere letterarie e cinematografiche, a riguardo, è più che consistente.
La condizione di milioni di persone di colore non cambiò nemmeno con l’avvento della Costituzione, ispirata a principi illuministici e liberali. Nel Novecento, poi, i neri vennero criminalizzati in ogni forma possibile, a giustificazione di ulteriori forme di violenza, seppur più velate, nei loro confronti. La politica, la stampa, i primi film ne offrirono rappresentazioni abominevoli e caricaturali. Queste rappresentazioni hanno tramandato, nella memoria collettiva, una sporca eredità, che vediamo sopravvivere negli stereotipi giunti ai giorni nostri.
Così, agli inizi del secolo scorso, risorse dalle proprie ceneri la farsa del Ku Klux Klan, maschera dietro la quale si nascondeva la più vile ideologia assassina e razzista, che ha mietuto vittime a migliaia, anche in tempi più recenti, tra cittadini di colore. Il cappuccio bianco era semplicemente il modo per garantirsi l’impunità per i crimini commessi; così come, fino ad oggi, lo è stata la divisa per molti poliziotti dalle idee razziste e il grilletto facile. George Floyd è solo l’ultimo nome di una lista della quale non si conosce l’inizio e, per ora, neppure la fine.
Scorie
La verità, dunque, è che alcune ideologie razziste non hanno mai del tutto abbandonato il substrato sociale dei paesi occidentalizzati. Nell’ultimo quinquennio, anzi, politiche – neanche tanto implicitamente – discriminatorie sono arrivate a conquistare enormi fette di elettorato (o comunque ruoli di potere) in nazioni chiave, per storia e cultura, nel panorama geopolitico. Dai muri col Messico, ai nostrani “Aiutiamoli a casa loro”.
È proprio questo quello che i manifestanti di tutto il mondo stanno gridando, dopo l’ennesimo episodio di prevaricazione: lo stato di soggezione, cui sono relegati da millenni le persone di colore, non è mai realmente terminato.
La Giustizia è più severa nei loro confronti che nei nostri, i loro morti e i loro diritti sono meno importanti dei nostri, le loro vite più isolate e i loro assassini meno colpevoli.
E sarebbe anche ora di finirla.
Enzo Panizio