"100 città con Patrick"
Interviste

“100 città con Patrick”: intervista agli ideatori dell’iniziativa

Tempo di lettura: 6 minuti

Passata inevitabilmente in secondo piano durante i momenti più tragici della pandemia Covid, la questione di Patrick Zaki ora ha acquisito maggiore eco mediatica e centralità nel dibattito nazionale (e non solo). Il Governo italiano – considerato anche il fragile rapporto diplomatico con l’Egitto – non si è sbilanciato sulla questione, adottando linea neutrale. Tuttavia, in tanti si sono schierati dalla parte di Patrick e, quindi, dei diritti umani.

Il 28enne studente egiziano dell’Università di Bologna è ancora in stato d’arresto, in attesa di udienza dallo scorso febbraio e, con probabilità che rasentano la certezza, sottoposto a torture. Anche per questo, si sono moltiplicate le iniziative. Tra gli obiettivi primari c’è il concedere a Zaky la cittadinanza italiana, in modo da fornire allo Stato italiano potere di trattativa, per esercitare pressione sul governo egiziano e costringerlo a garantire risposte e un equo processo.

Tra le campagne più importanti e di maggior successo degli ultimi mesi c’è sicuramente “100 città con Patrick”, ideata da Go Fair, un’organizzazione no-profit, che sta raccogliendo numerose adesioni nel concedere a Zaky la cittadinanza honoris causa nei vari comuni della Penisola. Il numero di consigli comunali ad aver (ufficiosamente) aderito si avvicina a 40, dai piccoli paesi ad alcune delle più importanti città italiane.

Abbiamo incontrato Go Fair, nella persona di Antonio Tondi, anche consigliere comunale di Pomigliano d’Arco e tra i primi ideatori dell’iniziativa, che ha risposto alle nostre domande.

Perché “100 città con Patrick”?

«Noi riteniamo che il passaporto italiano per Patrick Zaky – che è cosa diversa dalla cittadinanza onoraria di un comune – possa essere uno strumento fondamentale nelle mani della diplomazia italiana, per trattare con le autorità egiziane e chiederne la scarcerazione.
Al momento, Patrick è solo un cittadino egiziano. Certo, è uno studente internazionale che ha girato il mondo, studiava all’Università di Bologna, ma resta un cittadino egiziano.
Speriamo che questa campagna, volta ad attribuirgli la cittadinanza onoraria in almeno 100 comuni, possa fare da volano nella concessione del nostro passaporto. In questo modo le istituzioni italiane potrebbero chiedere a gran voce la scarcerazione di un innocente; salvandolo dalla tortura e dalla possibile morte».

Come nasce l’idea della campagna?

«La prima mozione per chiedere la cittadinanza onoraria è stata  presentata a Pomigliano d’Arco; città dove io faccio il consigliere comunale ma anche dove è cresciuto il Ministro degli Esteri Di Maio.
Attraverso l’attribuzione della cittadinanza pomiglianese a Zaky, volevamo sensibilizzare l’opinione pubblica e attirare l’attenzione delle istituzioni (quale il Ministero degli Affari Esteri, appunto) sulle quali grava la responsabilità della sua liberazione.
Da questo discende l’idea di Go Fair, la nostra organizzazione, di creare una campagna nazionale».

Come procede?

«Go Fair è una neonata organizzazione, siamo partiti poco più di due mesi fa. La nostra è una rete di studenti e lavoratori del no profit, che si occupa di cooperazione internazionale. Promuoviamo analisi e studio; proponiamo delle soluzioni, in materia appunto di cooperazione, contrasti alle disuguaglianze e tutela dei diritti umani.

“100 città con Patrick” non è il nostro primo progetto, ma abbiamo deciso di occuparci di questa tematica perché riguarda i diritti umani; i diritti civili e politici in particolare.

È andata benissimo fin da subito. Abbiamo registrato finora l’adesione ufficiosa di una 40ina di comuni. Il primo grande centro è stato Napoli, ma non è tutto. Giovedì al Comune di Bologna una nostra delegazione ha partecipato a una seduta della commissione affari istituzionali alla presenza anche del Rettore dell’Alma Mater Studiorum. In realtà l’iniziativa del capoluogo emiliano era partita autonomamente, poi hanno aderito alla nostra iniziativa. E ancora, bella notizia arrivata da poco, a giorni potremmo ottenere esito favorevole anche al Comune di Milano. Il consigliere Angelo Turco, che sposa la nostra causa, infatti, ha presentato un ordine del giorno per richiedere la cittadinanza onoraria. Attendiamo conferma, ma intanto continuiamo a ricevere adesioni da comuni di dimensioni più modeste.

Un’iniziativa che ha avuto successo, si può dire, considerato anche che è partita solo lo scorso 8 giugno…

«Questo successo, in realtà, a noi interessa poco. Il vero successo sarebbe vedere tornare Patrick a casa e saremmo ben felici se la nostra iniziativa divenisse, per questo, superflua.

Ad ogni modo, è chiaro che ci sia una certa sensibilità da parte dell’opinione pubblica. L’Italia ha diversi precedenti importanti quanto infelici con l’Egitto. Penso che la vicenda di Giulio Regeni, ad esempio, ha coinvolto un’intera generazione. Una generazione di persone che studiano, che si sono formate, che hanno scelto di girare il mondo, vivere e studiare all’estero, di conoscere altre culture. Quello che è successo al giovane ricercatore italiano, non soltanto il rapimento, la tortura e l’assassinio, ma anche il modo in cui la famiglia è stata abbandonata dalle istituzioni, ha sconvolto tutta quella generazione e il Paese intero, e li ha indignati.
Forse anche per questo la storia di Patrick Zaky ha raccolto la sensibilità e la vicinanza di tantissime persone, tantissimi Sindaci e amministratori locali».

Dunque un modo per rappresentare anche politicamente questa indignazione? Si vuole legittimare il Governo italiano a prendere posizione?

«Diciamo che l’azione di questo Governo è stata per molti versi deficitaria. Come anche quella dei Governi precedenti, in vicende simili. Quello egiziano è un regime. Un regime sanguinario che reprime le opposizioni, il dissenso politico e la diversità.
Patrick Zaky era un attivista per i diritti LGBT e per questo è stato messo in carcere.

Quando, per mesi ed anni, le autorità egiziane si sono rifiutate di raccontare la verità su quanto accaduto a Giulio Regeni, il Governo italiano ha adottato una linea blanda. In un primo momento, con fare intransigente, l’Esecutivo aveva ritirato l’ambasciatore italiano al Cairo per poi rimandarcelo, come nulla fosse, qualche tempo dopo. Come se il regime egiziano non avesse rapito, torturato e ucciso un nostro concittadino.
Tutt’ora l’Italia intrattiene rapporti commerciali con l’Egitto; un gran giro d’affari, soprattutto per quello che riguarda le armi. La ricerca della verità e della Giustizia, da parte del Governo, è stata sottomessa a quelle che erano delle esigenze economiche; noi con l’Egitto ci facciamo affari, nonostante tutto.

La posizione del Governo italiano, nella vicenda Zaky, non è stata certo condivisibile per quello che concerne la tutela dei diritti umani. La nostra iniziativa riguarda anche questo. Cerchiamo di stimolare la partecipazione della società civile, di sensibilizzarla sulla tematica perché noi, come Paese, abbiamo delle responsabilità. Patrick studiava e viveva in Italia; è stato arrestato quando è tornato per qualche giorno di vacanza in Egitto. Certo non ha ancora il passaporto italiano, ma noi non possiamo voltare la faccia dall’altra parte e dire che sono più importanti gli interessi economici del diritto di un ragazzo di esprimere il proprio pensiero»

La politica italiana ti sembra più legata a questioni meramente economiche che a importanti tematiche sociali? È la non-rappresentanza politica di queste tematiche il problema al quale vuole rimediare lo sforzo enorme che le organizzazioni no profit hanno sostenuto, soprattutto negli ultimi anni?

«Osservazione condivisibile. C’è tutto un impianto di valori, diritti e principi fondamentali che la politica non solo italiana ma, più in generale, occidentale sacrifica quotidianamente sull’altare degli interessi economici, ma anche su quello del consenso. E penso alla questione dell’immigrazione.

La questione dell’immigrazione è divenuto un problema serio dal momento in cui se n’è fatto un discorso legato al consenso elettorale. Ci sono partiti che hanno costruito – e costruiscono tutt’ora – i propri bacini elettorali con una pseudo-lotta assurda a un problema che non esiste. Ai danni causati hanno sopperito le organizzazioni non governative. Se non fosse stato per le navi di qualche ONG che monitorava il Mediterraneo per salvare la vita a dei disperati che scappavano da guerra, fame e persecuzione, il numero dei morti sarebbe stato molto più elevato di quello che già è. Quel tratto di mare è un cimitero.

Sulla questione Giulio Regeni, è drammatico che il lavoro più grande lo abbiano svolto le organizzazioni della società civile piuttosto che chi ne aveva la responsabilità e se ne è lavato le mani. Vogliamo sperare (e cerchiamo di fare in modo) che questo non diventi drammatico anche per Patrick Zaky. Loro voltano la testa dall’altra parte, però ci sono dei valori e dei principi non negoziabili, rispetto ai quali – su impulso delle persone o della società civile o delle organizzazioni non governative – i governi devono necessariamente intervenire.

I nostri interlocutori principali sono la società, le persone, la rete di Sindaci e amministratori locali, certo, ma è soprattutto il Governo che oggi ha il compito – e ha tutti gli strumenti per assolverlo – di chiedere la scarcerazione di Patrick Zaky, provare a liberarlo e farlo tornare a Bologna a studiare»

In ultimo, quali i vostri obiettivi  per il prossimo futuro? Quali le questioni che, secondo voi, meritano l’attenzione della società civile?

«Il nostro è un gruppo di giovani che si sono specializzati nello studio dei diritti umani e della cooperazione internazionale. L’obiettivo è unire queste competenze, soprattutto per quanto riguarda il contrasto a povertà e disuguaglianze, siano esse in Italia o aldilà del mare. Questo meriterebbe, secondo noi, la maggiore attenzione della società civile.

Al momento, poi, abbiamo un bel progetto in corso con l’Uganda (paese con gravi problemi sanitari connessi a carenze igieniche) che abbiamo chiamato “S.E.I. per l’Uganda“. Esso consiste in una campagna di raccolta fondi fatta in partenariato con un’organizzazione di comunità di base presente nel distretto di Gulu al fine di finanziare corsi di formazione per la produzione del sapone.

L’igiene è stato un tema che in quarantena, giustamente, la TV ci propinava in continuazione. In un mondo diseguale, però, ci sono posti dove il potere lavarsi le mani non è così scontato come da noi. Immaginiamo quanto possa essere efficace la prevenzione del Covid a queste condizioni…

Oltre a finanziare i corsi di formazione, poi, il denaro servirà ad acquistare dei “kit”. Con questi, i ragazzi che parteciperanno alla formazione potranno produrre sapone autonomamente e venderlo a un prezzo concorrenziale, più basso di quello dei supermercati locali. In questo modo si vuole creare un’economia circolare nella quale questo denaro speso in formazione serva a creare opportunità di lavoro e di sviluppo. Un progetto sostenibile, insomma, che punta a mettere in condizione gli abitanti del luogo di proseguire in questo circolo virtuoso in totale autosufficienza».

Grazie ad Antonio e a Go Fair per la loro disponibilità e il loro impegno nella lotta alle disuguaglianze.
Enzo Panizio
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